L’indomani alle sette di mattina ero già al molo di Cau Dau Sau, un sobborgo a 6 chilometri da Cantho, per raggiungere in barca il mercato di Cai Rang che è il più grande del delta, e che si svolge al centro del Mekong. Il braccio di fiume era ampio e le imbarcazioni molto distanti tra loro, per cui non c’era un’atmosfera caotica e frenetica come nei mercati terrestri, cosicché sembrava che le contrattazioni si svolgessero al rallentatore. Le “barche negozio”, tutte di legno grezzo non lavorato erano grigie e tetre, e davano un’idea d’instabilità e di vecchiume. L’unica nota di colore erano i grandi occhi bianchi con le pupille nere dipinti sulla prua. Gli occhi dovrebbero proteggere i naviganti e spaventare i demoni del fiume.

Questa trascuratezza dei natanti, unita al colore caffè latte del fiume, al grigio del cielo e alla monotonia delle rive per nulla lussureggianti, non fanno apprezzare appieno il mercato. Le contrattazioni avvengono tra questi empori galleggianti e piccole imbarcazioni lunghe e strette, guidate da una donna ritta in piedi, che protendendosi in avanti, muove due remi incrociati a X, con un ritmico movimento. I prodotti commercializzati sono appesi ad una lunga asta issata a poppa o a prua, ma i barconi non vendono solo al dettaglio. Fungono anche da grossisti, perché grandi quantità d’ortaggi sono trasferite su barche più piccole che si avviano lungo i canali laterali, per raggiungere negozi e mercati periferici.

Più che il mercato mi ha interessato l’andirivieni di barche lungo il fiume: il Mekong è come un’autostrada fluviale. Grandi chiatte trasportano la terra dragata dal letto del fiume, ci sono case galleggianti e traghetti stipati di moto, biciclette e passeggeri che fanno in continuazione la spola tra le due rive. Dopo un’altra mezz’ora di navigazione ecco il mercato di Phong Dien, a detta di molti il più bello di tutto il delta del Mekong. Non ho notato molte differenze rispetto a quello di Cai Rang, a parte un maggior numero di piccole imbarcazioni.

Ho visitato una fabbrica di noodles, i tagliolini di riso che rappresentano il pane quotidiano vietnamita, composti per il 60% da tapioca (un tubero simile alla patata) e per il 40% da riso. Tra grandi sbuffi di fumo, i macchinari amalgamavano questo composto che poi era messo su una piastra rovente che lo solidificava. Si formava un’enorme e sottile pizza gigante dal colore trasparente e lattiginoso, che una volta raffreddata era trasformata in spaghetti. I lavoratori si davano un gran da fare in un ambiente caldo ed angusto, tra maiali in gabbia e capannelli di turisti curiosi, che ficcavano il naso da tutte le parti.

Interessante è stato anche l’allevamento di coccodrilli: ce n’erano più di mille, da quelli lunghi appena dieci centimetri a quelli di oltre tre metri. Hanno spiegato che vengono uccisi intorno ai tredici anni per diventare scarpe, cinture e borsette. Tornato a Cantho ho proseguito in autobus verso Chau Doc, l’ultima città vietnamita prima del confine cambogiano. Anche oggi il paesaggio è di campi di riso inframmezzati da una miriade di canali, e l'acqua la fa sempre da padrona. Poiché è iniziato a piovere è saltata l’ascesa al Monte Sam, ricco di pagode e templi rupestri, posto frequentato da pellegrini e turisti di Hong Kong e di Taiwan, dalla cui cima il panorama spazia fino alla Cambogia.

Delta del Mekong - Chau Doc

Arrivato a Chau Doc a causa della pioggia torrenziale, non c’è stata altra possibilità che rifugiarsi all’Hotel Vinh Phuoc, e uscire solo per mettere qualche cosa sotto i denti. Alla mattina ho dato un’occhiata al mercato: ogni volta che mi aggiro tra le bancarelle è come se fosse la prima volta. Sono sempre affascinato da questi luoghi di scambio, dalla gente che si fa strada a fatica nelle strette corsie, dai colori della frutta e della verdura, dalle mani dei compratori e dei venditori, dai veloci scambi di denaro e merce, dagli odori dolci e pungenti che si trasformano in altri odori deliziosi o nauseabondi. I mercati sono luoghi pulsanti di vita, molto diversi dagli asettici centri commerciali occidentali. Qui trovo sempre un qualche cosa d’interessante: magari sono sempre le stesse cose, ma è l’ambiente che fa la differenza.  

Prima di arrivare al confine cambogiano di Kaam Samnor sono stato ad un villaggio Cham, o meglio, a visitare alcune palafitte dove vivevano gli “zingari del mare”. In una di queste c’era un telaio e una ragazza dava dimostrazioni di tessitura tradizionale, con attorno sciarpe e tessuti in vendita. Mi sono aggirato stancamente per la casa, perché non amo queste vendite camuffate da tour etnico culturale, che rappresentano un ulteriore distacco dai modi di vivere tradizionali per queste minoranze in via d’estinzione.

Più interessante è stata la visita ad un allevamento d’acquacultura, una “fish farm”, come la chiamano qui. Si tratta di case galleggianti in lamiera che si trovano lungo il fiume, al cui interno ci sono alcune gabbie cubiche immerse nell’acqua per allevare il tilapia o pesce San Pietro. I pesci sono nutriti con un pastone marrone, identico al colore dell’acqua del Mekong, composto da vegetali, sale e pesci morti: quando mangiano si agitano come forsennati e fanno ribollire l’acqua. Vivono all’ingrasso fino al raggiungimento del peso di un chilo e il prezzo all’ingrosso si aggira sui due dollari.

Poi è iniziata la lenta navigazione verso il confine: le rive sono di una vegetazione lussureggiante, come le coltivazioni di riso, irrigate con un ingegnoso sistema che pesca l’acqua direttamente dal fiume. Dopo avere fatto il visto cambogiano, ho cambiato barca a Kaam Samnor e mi sono diretto verso Phnom Penh.

Il paesaggio è subito cambiato, non tanto per la natura, ma per gli uomini e l’ambiente in cui vivevano. Era un viaggio nel passato: tutto sapeva d’ancestrale, di notte dei tempi, di vita al rallentatore e ricordava le gallerie con i bassorilievi del Bayon, il famoso tempio Khmer d’Angkor Wat che descrivono la vita nell’antico regno. Le abitazioni sono palafitte con il tetto di foglie di cocco, i bambini e gli uomini vanno in giro semi nudi e si lavavano nelle acque color mattone del Mekong, le barche semplici gusci di legno e le rive del fiume sono popolate da vitelli e bufali d’acqua che mangiano con lentezza. Ogni volta che la barca passava davanti ai villaggi, i bambini si sgolavano in cantilenanti “hello, hello” e facevano “ciao ciao” con le manine.  

Dopo tre ore di navigazione ho abbandonato la barca per l’autobus: Phnom Penh è lontana, e per arrivarci ci vogliono ancora due ore di strada. Piove, così la capitale cambogiana mi è apparsa cupa, ricca di strade allagate, rappezzate e poco illuminate che non invogliano a fare quattro passi. Ovunque sei sempre circondato da uno stuolo di moto carrozzette e taxi che ti vorrebbero in eterno movimento.

Phnom Penh

Mi sono fatto portare all’Hotel Indochine 2, un posto niente male e ho cenato sul lungofiume in un ristorante tailandese: il Chang Mai Riverside. I prezzi sono espressi in dollari e sono oltraggiosamente alti. La valuta americana è più usata del Riel, la moneta locale, e ti chiedi come ciò possa essere possibile, in un Paese dove il reddito medio supera di poco i 2.000 dollari l’anno.

L’indomani ho trovato bambini con i vestiti stracciati che giocano per strada, mercati fatiscenti dal puzzo nauseabondo, sporcizia per le strade, orde di mendicanti alla ricerca di qualche dollaro, persone dalle facce tristi che non ti accolgono con il sorriso, come in un qualunque altro posto del sud est asiatico, ed anche il Mekong sembra meno bello. I ristorantini all’aperto sono meno invitanti: la notte sono male illuminati e danno un’idea d’insalubrità e non invogliano a sedersi. Lo stesso vale per i mercati, quello di Psar Thmei incuriosisce più per la struttura, simile ad uno ziggurat babilonese, che per le merci poste in vendita, mentre il mercato di Psar Tuol Tom Pong, chiamato comunemente mercato russo, perché frequentato dai sovietici negli anni ottanta, è un’angusta trappola per turisti.

Questo mix di situazioni, questo disagio, fa sì che Phnom Penh non affascini e non m’intrighi, sembra una città brutta, sgraziata e senz’anima, un luogo di dannati dimenticato da tutti. Sono solo sensazioni, ma identiche a quelle provate nell’anno 2000. Mi chiedo cosa diavolo sono venuto a fare qui e che senso abbia essere tornato a Phnom Penh.

Ho visitato il palazzo reale, il museo nazionale e il museo di Tuol Seng. Oltre a queste tappe obbligate, c’è qualche bella costruzione coloniale, ma nulla più. Il biglietto d’ingresso al palazzo reale è un vero è proprio furto, perché nonostante il luogo sia enorme con tanti padiglioni e santuari, si possono visitare solo la pagoda d’argento e la sala del trono. Dall’esterno vedi un’enormità di tetti colorati e dorati, ma una volta entrato ti accorgi che l’area visitabile è minima, non è permesso nemmeno accedere alla maggior parte dei giardini, perché ci sono cartelli e guardiani ovunque che inspiegabilmente sbarrano gli accessi.

Il museo nazionale invece, è un posto dove mi piace sempre tornare, per poter camminare tra la più bella collezione d’arte Khmer al mondo, tutto il contrario della prigione di Tuol Seng, che è sempre un pugno nello stomaco. Questa è la scuola, trasformata nel 1975 nel campo di prigionia S-21, dove furono rinchiuse 17.000 persone, prima di essere trasferite ai campi di sterminio di Choeng Ek.

 

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