L’hotel ha una hall moderna ed accogliente, anche la camera è apparentemente perfetta, però è funzionale come una di quelle stanze da esposizione, che si trovano nei saloni dei mobilifici. La televisione non funziona, c’è il dispositivo per l’aria condizionata ma manca il comando per farla funzionare, e c’è un unico interruttore generale per la luce elettrica, così per spegnerla bisogna staccarla. Molte lampadine sono fulminate, cosicché permane una cupa penombra e non pensi nemmeno di chiamare un inserviente, perché non capirebbe una parola di quello che gli avresti da dire.

Mi sono consolato facendo quattro passi per il centro della città e cenando in un fast food cinese chiamato “Do and me”, un brutto clone della catena dei Mac Donald’s. Offriva cibo scadente e poco invitante, tutto il contrario di quello presentato in fotografia. C’erano zampe, ali, cosce di pollo, e fumanti zuppe con spaghetti in brodo, poi sono andato a dormire.

Colazione con rambutan, frutti tropicali dal colore rosso acceso e piccole ma saporite banane, poi ho affrontato la biglietteria della stazione ferroviaria per acquistare il biglietto che domani mi porterà a Pingxiang, verso il confine vietnamita. Pochi parlano inglese, a parte gli entusiastici “hello” e “bye bye” con il quale ti salutano i più giovani. Siccome alla reception dell’hotel masticavano un po’ della lingua di Shakespeare, mi sono fatto tradurre una frase che diceva: “ Voglio comprare un biglietto del treno per Pingxiang” e così l’acquisto è stato un gioco da ragazzi!

Un altro problema è cambiare il denaro in Yuan, perché nonostante ci siano una moltitudine di banche, l’unica autorizzata a cambiare agli stranieri è la “Bank of China”. Bisogna assolutamente trovarne una, non dimenticando di portare con sè una fotocopia del passaporto, pena il dovere andare a cercare una copisteria. Sono stato alla libreria Xinhua, una delle più grandi di tutta la Cina, ci sono quattro piani ricchi di libri, affollati da persone d’ogni età che leggono tra gli scaffali. E’ una folla enorme e risulta difficile muoversi.

La folla è il denominatore comune che caratterizza il centro della città: la gente è ovunque, affolla le bancarelle del mercato attorno alla Chaoyang Lu. Affolla i ristorantini di strada e divora ogni cosa, a qualsiasi ora del giorno. Affolla gli enormi centri commerciali e interi piani che vendono tutti le stesse cose. Affolla i negozi d’abbigliamento sportivo di marca cinese, i cui marchi ricordano vagamente i loghi di Adidas, Mizuno e Nike. Anche i marciapiedi delle strade sono pieni di gente: un fronte compatto che si muove all’unisono.

La passeggiata è stata un’occasione per osservare i cinesi di città che vestono in modo atipico e demodé per i nostri canoni. Colpiscono soprattutto le donne che essendo piccole di statura, sfoggiano alti e scomodi tacchi. Le più giovani esibiscono minigonne mozzafiato che mettono in risalto gambe storte e pallide, oppure vestono gonne sgraziate, jeans corti e abitini leggeri. Dalla vita in su invece, amano indossare magliette o camicioni dai colori sgargianti. Le donne incinte indossano vaporosi vestiti che ricordano le sottane della nonna. Anche se non hanno il pancione, questa mise le identifica come future mamme. Gli uomini invece indossano camicie o polo d’antan e calzoni scuri con scarpe dal medesimo colore, che fanno venire il mal di piedi solo nel guardarle.

Camminando mi è venuto un certo languore, così ho mangiato paradisiaci ravioli al vapore e spiedini di carne. Anna Rita invece non ne ha voluto sapere, perché era terrorizzata nel dover assaggiare la cucina canina, Nanning, infatti, è famosa per la carne di cane cotta nel brodo. Non ho indagato sul tipo di carne, ma i miei spiedini caramellati ai semi di sesamo erano ottimi. Ho comprato un gatto portafortuna dorato che muove ritmicamente la zampina e sembra che saluti, dolci dal sapore indefinibile per stupire gli amici nelle lunghe sere invernali, biscotti a base di castagne d’acqua, cracker al sentore di maiale e al gusto d’arachidi. Così, tra qualche acquisto e un’occhiata alla città, la giornata è passata velocemente.

Pingxiang

Alla mattina ho preso il treno per Pingxiang. Dal finestrino scorreva un paesaggio con montagne carsiche simili a quelle viste a Guilin, che degradavano fino a diventare una piatta campagna coltivata a granoturco. Dalla stazione ferroviaria ci sono voluti ancora 18 chilometri per arrivare al valico di frontiera del “Passo dell’amicizia”. Alla dogana cinese occorre procedere a piedi e passare sotto un arco in pietra, e dopo un tratto di “terra  di nessuno”, ecco il Vietnam. Mi sono fatto portare in taxi alla cittadina di Lang Son, da dove partono i minibus per Hà Nôi. L’autista vedendo che ero appena arrivato in Vietnam, mi ha chiesto una cifra pazzesca: due milioni di dong, un prezzo quaranta volte superiore al costo del biglietto, che era di appena cinquantamila dong. Sentendo odore di truffa ho lasciato perdere.

Da quel momento è iniziata una scena a metà strada tra il film “Tototruffa”, dove Totò e Nino Taranto sbarcano il lunario con piccoli raggiri e una commedia surrealista. Io che camminavo a piedi sotto il sole, ancora sdegnato per tanta arroganza, con il minibus che mi seguiva a passo d’uomo, mentre cercavo di raggiungere la stazione dei bus di Lang Son. Il taxista mi aveva appositamente lasciato in un posto periferico, facendomi cadere nelle mani di questo suo compiacente amico. Ogni tanto quel losco figuro dell’aiutante, un uomo vestito di nero, dalle mani femminili e ben curate, sempre intento a fare telefonate come un broker di borsa, scendeva dal minibus e tentava di trattare sul biglietto, il cui prezzo è continuato a scendere, fino a quello corretto.

Siamo partiti per Hà Nôi  solo quando il minibus si è riempito, non solo di clienti, che l’autista raccattava percorrendo su e giù le strade della cittadina, ma anche di merci provenienti dalla Cina. Infatti, sotto i nostri piedi, c’erano confezioni di frullatori e microfoni per il karaoke. In tre ore di viaggio abbiamo attraversato una campagna ben curata. Era una pianura piatta e fertile, popolata da bufali d’acqua e contadini chini a lavorare la terra, dalla quale spuntavano i bianchi capelli conici.

Hà Nôi

Ad Hà Nôi  ho alloggiato al Sunshine http://www.hanoiclassichotel.com, un hotel bello e confortevole che si trova nel vecchio quartiere, chiamato anche quartiere delle “trentasei strade”, perché nel XIII secolo le trentasei corporazioni della città si stabilirono qui, ognuna in una strada diversa. Non mi soffermo a parlare del quartiere e della città, perché su questo sito, è possibile leggere il diario del viaggio che ho fatto in Vietnam nel 2002.

Sono impaziente di rivedere la città e le sue strade affollate. Tutto è identico come a quattro anni fa: il caos per le strade, la frenesia degli abitanti, la marea di scooter, le mille botteghe artigianali, i venditori di frutta, i guidatori di cyclo – pousse che ti molestano ad ogni angolo di strada. Camminare per la città è quasi un azzardo: le moto ti vengono incontro da tutte le direzioni, non puoi nemmeno rifugiarti sui marciapiedi, utilizzati per tutto fuorché per camminare. Sono parcheggio per le moto, negozio per i venditori ambulanti di frutta, sede d’improvvisati ristorantini, luogo di relax per i commercianti che siedono su minuscoli sgabelli in attesa degli avventori.

I pochi semafori sono inutili, perché gli scooter passano indifferentemente sia con il verde che con il rosso. Devi avere mille occhi e imparare a schivarli, perché quando gli scooter incrociano un pedone, avanzano inesorabili, allargando la loro traiettoria fino al marciapiede. Lo stesso vale anche per il rumore: convivi con un frastuono assordante, un ruggito provocato dai clacson e dalle accelerazioni delle moto, un brusio incessante al quale ci si abitua velocemente. Le strade sono intasate dalla mattina all’imbrunire, poi il flusso diminuisce fino ad annullarsi, e Hà Nôi diventa una città deserta, che come un Giano bifronte ha due anime: infernale di giorno e taciturna di notte.

Anna Rita è rimasta strabiliata dai negozi eleganti che proponevano vestiti in seta, oggetti laccati e in midollino. Le brillavano gli occhi e faceva grandi progetti su cosa avrebbe acquistato. Accennavo di si con la testa, perché anch’io ero rimasto stregato e nel 2002 avevo spedito in Italia un pacco, con tutti gli acquisti fatti ad Hà Nôi. Ho camminato fino al lago Hoan Kiem, dove ho riscoperto i piaceri della bia hoi, la leggera e vaporosa birra alla spina vietnamita. Il lago è un luogo amato dagli abitanti della città: la gente viene all’alba per esercitarsi nel Tai Chi Chuan, un'antica arte marziale trasformatasi nel corso dei secoli, in una raffinata forma d’esercizio per la salute ed il benessere. Consiste nell'esecuzione di una serie di movimenti lenti e circolari che ricordano una danza silenziosa che mima la lotta contro un opponente immaginario.

Durante il giorno non si trova una panchina libera: il lago è il posto prediletto per le coppiette d’innamorati, per chi vuole riposarsi, fare quattro chiacchiere o giocare a majong. All’imbrunire invece si fa ginnastica o si passeggia in compagnia. Ho mangiato in un bel locale per occidentali, il Quàn Bia Minh, che offriva hamburger e cibo vietnamita con una veranda al primo piano, dove era possibile sedersi all’aperto e osservare la vita pulsante della città. Anna Rita si sentiva rassicurata da quello che mangiavano gli avventori, un melting pot di razze provenienti da ogni dove, perché a suo dire non le avrebbero mai servito pietanze a base di cane. Ha abbandonato riso e verdure e si è azzardata ad assaggiare l’ottimo pollo allo zenzero e il maiale al ginger.

 

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