Questi sentieri sono delle vere e proprie opere d’ingegneria che uniscono colline, villaggi e campi di riso. Arrivato nei pressi del villaggio di Dazai, sono stato assalito dalle “donne portatore” d’etnia Zhuang, che facevano di tutto per accaparrarsi gli zaini. Hanno un gran cesto di bamboo sulle spalle, e poiché il paese si trova in cima ad una collina, cercano di guadagnarsi qualche yuan trasportando i bagagli.

Indossano abiti variopinti, ma la particolarità sta nei capelli lunghissimi: le loro capigliature possono arrivare a terra e raggiungere il metro e mezzo di lunghezza. I capelli sono avvolti in elaborate code di cavallo e alcune capigliature sono formate da estensioni. I capelli vengono ereditati da madri, nonne e bisnonne, così le estensioni si allungano generazione dopo generazione, allo scopo di raggiungere lunghezze da record. Le maritate si differenziano dalle nubili, perché portano in testa un fazzoletto o un berretto nero.

Tutte le case del villaggio, come l’hotel, il Minority Cafè & Inn, sono in legno. E’ onnipresente il rumore delle motoseghe e i falegnami hanno un gran daffare a costruire e a trasportare i grandi tronchi portati in spalla dagli uomini Zhuang, lungo gli stretti e ripidi sentieri. Il paesaggio è un susseguirsi di colline terrazzate, di valli ripide e strette seminate a riso, ma la cosa più bella sono le coltivazioni. Possiedono una geometria stupefacente, tanto da poterle paragonare a una versione tridimensionale di una mappa altimetrica.

Due sorelle d’etnia Zhuang hanno cercato di farmi da guida, ma i sentieri sono ben segnalati ed è impossibile perdersi. Le donne mi hanno seguito come ombre, cercavano ad ogni sosta di vendere vestiti, bracciali e oggetti ricamati. Nonostante il rifiuto le ho ritrovate al ristorante dell’alberghetto, intente a lavorare all’uncinetto. Mentre mangiavo hanno mostrato ancora una volta tutta la mercanzia, andandosene solo dopo l’acquisto d’alcune cartoline.

L’indomani sono stato svegliato dalla musica irradiata dagli altoparlanti della piazza principale del paese. Le vette più alte erano intrappolate dalla nebbia, e i sentieri, resi scivolosi per la pioggia della notte, erano percorsi dagli uomini che andavano a lavorare nei campi e dalle donne che scendevano a valle con le ceste sulle spalle. Nel pomeriggio ho abbandonato Dazai, percorrendo in minibus la stretta strada sterrata fino a Longsheng, tappa obbligata per arrivare a Sanjang, la piccola capitale della regione autonoma dei Dong.

Il viaggio è stato interminabile perché stavano asfaltando i 75 chilometri di strada, così il trasferimento è durato più di tre ore e mezza. Era impossibile aprire i finestrini perché entrava una polvere finissima come il talco, c’era un gran traffico di camion e bus e per ogni manovra di sorpasso, ci voleva il doppio del tempo previsto. Si viaggiava tra grandi fiumi e campi di riso dal colore giallo, prossimi alla mietitura. I pochi paesi attraversati ospitavano case in legno dai tetti sinuosi e dai coppi scuri. Tutto questo legno ricordava gli antichi villaggi della Cina imperiale. Da Sanjang mancavano ancora 18 chilometri per arrivare a Chengyang, la mia meta in questa regione, famosa per i villaggi delle minoranze, i ponti e le torri del tamburo.

Chengyang

In tutta la regione ci sono più di cento ponti coperti, ma quello di Chengyang è forse il più bello ed elaborato di tutti. Costruito nel 1916, poggia su quattro piloni di pietra che sostengono altrettanti padiglioni simili a pagode dalle forme moderne e avveniristiche, che rappresentano gli stili della regione. Non si direbbe che si tratta di un ponte, se non per l’acqua che ci scorre sotto.

 Per entrare nell’abitato di Chengyang, occorreva superare il ponte, ma nonostante l’oscurità e la tarda ora, era presidiato da due guardie. Anche qui come a Longj Titian, occorreva pagare un pedaggio per passare sull’altra sponda: ancora una volta ero sbigottito di dover pagare dazio per camminare tra i campi di riso e per visitare i villaggi. Sono andato a dormire al Dong Village Hotel. Ogni cosa è in legno: dai letti, alle porte, ai pavimenti. Tutto è semplice ma funzionale, e nell’aria c’è un buon odore di legno di cedro. Ho cenato al ristorante dell’hotel, e il proprietario, l’intraprendente Signor Micheal Yong, mi ha servito riso agglutinato, verdure miste e melanzane con carne.

La mattina mi sono svegliato di buon ora, grazie ad un gruppo di gitanti cinesi che occupava il piano superiore dell’hotel. Camminare sul legno amplifica i rumori e gli ospiti dei piani superiori erano mattinieri. Li ho incontrati mentre mangiavano grandi ciotole di riso fritto e spaghetti in brodo. Anch’io volevo fare una colazione in stile cinese, ma il gruppo aveva già spazzato tutto, così ho ripiegato su due pancake alle mele. Ho fatto un percorso circolare che attraversa sette villaggi Dong bagnati dal fiume Linxi, grazie ad un’utile mappa in inglese e cinese datami dal proprietario della guest house, che permette di raggiungere le varie località senza perdersi. S’incontrano case di legno scuro di due o tre piani, torri e ponti, mulini ad acqua neri e scricchiolanti. Sono in bamboo intrecciato, e alimentano i canali d’irrigazione, attraverso un complesso sistema di tubi che raggiunge ogni terrazzamento.

Un’altra particolarità del posto sono le torri del tamburo a pianta quadrata, chiamate così perché utilizzate anticamente come postazioni di vedetta. Quando il paese era in guerra, i tamburi servivano per mettere in allerta il villaggio. Le torri assomigliano ai gopura dei templi dell’India del sud e hanno una forma piramidale. Ora sono utilizzate per feste e riunioni, ma anche come ritrovo per gli anziani. Sono luoghi freschi e ventilati e la gente li utilizza volentieri per chiacchierare, giocare a carte o a majong.

In queste valli si coltiva anche il cotone e le donne Dong sono intente a pulire i baccelli. Al tatto sono soffici come batuffoli d’ovatta, se ne prendi uno per un’estremità e lo tiri, forma un sottile e invisibile filo. In ogni casa c’è un tino per tingere i tessuti, che ricorda quello utilizzato per la fermentazione del mosto. Le donne immergono e rimescolano le stoffe, è un lavoro che fanno a mani nude, e le mani sono di un inquietante color viola. Una volta che il tessuto è asciutto, è battuto con un gran mazzuolo, così senti risuonare per le strade un rumore secco, una specie di “tonf, tonf”. Questi tessuti diventeranno bluse color indaco e pantaloni corti, gli abiti tradizionali indossati dalle donne Dong.

Dopo avere attraversato coltivazioni di riso e di the, ho raggiunto Jichang che si trova in cima ad una collina, continuando poi ancora a salire per sentieri così stretti, dove a malapena ci passa una persona. Dalla cima si vedono campi terrazzati ed abeti, e non c’è traccia d’insediamento umano. Camminando tra i campi di riso verde smeraldo e dorati, ormai pronti per essere mondati, mi sembra di avere raggiunto il mio personale Shangri-La.  Abbandonati i terrazzamenti ho visto il tramonto dalla collina che domina Chengyang. La vista abbraccia la pianura con i sette villaggi Dong, il fiume Linxi e il famoso ponte. Il paesaggio di colline e villaggi lignei ha un sapore antico, che fa pensare ad una Cina rurale ormai scomparsa. Ovunque guardi vedi case, torri del tamburo e ancora case.

Per cena Mister Yong ha replicato il menu di ieri, con l’aggiunta di ottime patate fritte. In lontananza si sentiva della musica, così ho raggiunto uno spiazzo dove si svolgeva una festa con canti e balli. I suonatori vestiti nei costumi tradizionali Dong, utilizzavano grandi flauti e piccole chitarre. La festa è terminata con un ballo collettivo, un girotondo con molte complicate variazioni e con un BBQ, a base di carne piccante con un sentore d’agrodolce. Di notte ci sono stati tuoni e fulmini, così quando si scatenava la folgore, ero svegliato da fastidiosi squarci di luce bianca.

Dopo un ultimo pancake alla banana gustato in veranda, ho preso un minibus per Sanjang. Forse la giornata uggiosa e la nebbiolina azzurrina che sosta a mezz’aria non rendono giustizia al posto, ma la città è un ammasso di case grigie e di fabbriche di mattoni che ammorbano l’aria. Tutto questo grigiore mette tristezza e penso che per nulla al mondo vivrei qui, anche se basta abbandonare la città per ritrovare il verde dei campi e le case lignee dei Dong. In tre ore e mezza sono arrivato a Liuzhou, città che come Guilin va fiera delle famose, ma meno belle colline carsiche. Appena il tempo di fare uno spuntino, e poi via verso Nanning, la mia porta per il Vietnam. Il bus è moderno, con le cinture di sicurezza da indossare obbligatoriamente e l’hostess che ci guarda a vista, affinché nessuno possa buttare avanzi di cibo per terra o sputare fuori dai finestrini. I passeggeri giocano con le suonerie dei telefoni cellulari: ce ne sono di tutti i tipi, la più originale è quella che propone il melodioso cinguettare degli uccelli.

Nanning

Nanning è una città enorme da tre milioni d’abitanti, sterminata come la sua periferia. Tutto è in costruzione: dai nuovi palazzi, alle fabbriche, ai ponti sul fiume Yong. Ovunque si lavora per migliorare strade e infrastrutture. La città divenne un centro importante durante la guerra del Vietnam, quando la linea ferroviaria Nanning - Hà Nôi fu utilizzata per trasportare gli armamenti attraverso il confine di Pingxiang che dista da qui 160 chilometri. Oggi invece la città si arricchisce sempre più, grazie ai traffici commerciali con il paese confinante. Anche la stazione dei bus è nuova di zecca e si trova lontano dal centro della città, così occorre pendere un mezzo urbano che in mezz’ora ti porta a destinazione. Ho scelto l’hotel Yin He, centrale e vicino alla stazione ferroviaria, da dove parte la Chaoyang Lu, l’arteria principale della città che offre tutto ciò che si può desiderare, dopo i giorni passati tra le minoranze etniche.

 

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