I tunnel si sviluppano per oltre 200 chilometri, ma furono scarsamente utilizzati durante la guerra contro gli USA, perché Cu Chi era una delle tre basi logistiche della US Army di stanza vicino a Saigon. In compenso, data l'estensione della rete di cunicoli che raggiungeva il confine con la Cambogia e continuava anche oltre, molti di questi passaggi furono usati per il trasporto di materiale e personale proveniente dalla Cambogia orientale, tramite il sentiero di Ho Chi Minh. Le gallerie di Cu Chi, a differenza di quelle di Vinh Moc, sono così buie e così strette che occorre camminare accovacciati.

All’interno fa un caldo tremendo, si suda copiosamente e si fa fatica ad andare avanti. Si soffre di claustrofobia anche percorrendo poche centinaia di metri. L’esperienza è stata interessante e più istruttiva di un documentario, utile per capire quali erano le condizioni di vita sottoterra. La guida ha anche mostrato le ricostruzioni e il funzionamento d’alcune trappole anti uomo, tra cui le famose "gabbie da tigre", le prigioni con le celle scavate nel suolo e le sbarre al posto del soffitto, ma anche le trappole Vietcong irte di lance, ricavate da canne di bamboo che si attivavano al passaggio dell’uomo. C’erano anche granate agganciate ad un filo teso attraverso il terreno, così, quando il soldato inciampava nel filo innescava l’ordigno, e tavole di legno ricoperte di punte. Quando il soldato appoggiava il piede, le tavole si ribaltavano e gli aculei andavano a conficcarsi nelle gambe del malcapitato.

La visita si è conclusa con la sosta al poligono di tiro, dove era possibile acquistare pallottole e sparare con fucili mitragliatori, proprio come in un luna park, solo che qui armi e proiettili erano veri: se si colpivano i bersagli, si vincevano dei premi. Ero stupito per come in un posto come questo, un baluardo dell’orgoglio comunista, i vietnamiti erano riusciti a ricavare un piccolo business, perché erano pochi i visitatori che rinunciavano a sparare. Ero scioccato di fronte a questa intraprendenza, nell’aver trasformato questo luogo simbolo, in un’attrazione dissacratoria da fiera paesana. Il ritorno verso Ho Chi Minh City è stato lento: sembrava che tutte le moto del mondo si dirigessero verso la città.

Ho cenato nelle vicinanze del mercato di Ben Thanh. Stasera il piatto forte erano i nem, cioè involtini in sfoglia di riso. Erano sottili come un foglio di carta e dovevano essere arrotolati con gli ingredienti che hanno portato in tavola: gamberi cotti nella canna da zucchero, coriandolo, menta e altre verzure non identificate.

La giornata successiva è stata dedicata al quartiere cinese di Cholon. Mi sono fatto portare in moto taxi nel distretto numero 9, che si trova a 5 chilometri dal centro della città, infatti, Ho Chi Minh City è divisa in 17 distretti urbani. Cholon significa “grande mercato”, un nome appropriato, perché dove un tempo prosperavano bordelli e fumerie d’oppio, oggi regna un operoso commercio. Si vedono poche facce con gli occhi a mandorla: indubbiamente non è semplice distinguere un cinese da un vietnamita, ma il quartiere sembra meno caratteristico della Chinatown milanese.

Quello che lo rende indistinguibilmente cinese sono le tante pagode e i negozi colorati che vendono incensi, lanterne di carta e teste di drago in cartapesta. Le pagode sono molte e non facili da trovare, perché si mimetizzano in questo ambiente di case basse e strette e di negozi davanti ad ogni uscio. Se non ti guardi attorno con attenzione, non le identifichi alla prima occhiata. Hanno i tetti spioventi, tanti altari e bracieri per le offerte d’incenso, ma sono tutte simili tra loro, e dopo la terza visita, ho abbandonato l’idea di vedere tutte le pagode di Cholon.

Il quartiere mi ha colpito per la sua vita pulsante: per i mille affari che si svolgono per strada, per l’operosità delle botteghe, per la floridità dei commerci ed il caos che regna all’interno del famoso mercato coperto di Binh Tay. Abbandonato Cholon sono tornato verso il centro, nella zona di Dong Khoi, ricca di bei negozi e hotel di lusso e con il traghetto sono andato al di là del fiume Saigon. Dopo uno spuntino con il pho, semplici tagliolini in brodo, che rappresentano il piatto nazionale vietnamita, e colorati involtini avvolti in una morbida e leggera carta di riso, sono tornato sull’altra sponda.

Nel pomeriggio ho fatto una sosta rigenerante in un negozio che vendeva poltrone massaggianti. Si tratta di poltrone “apparentemente innocue”, che una volta “accese” iniziano ad eseguire alcuni programmi computerizzati, che fanno massaggi su tutto il corpo, esclusa la pancia. Ogni arto beneficia del movimento di questa strana poltrona e sembra che mani umane manipolino schiena, gambe, piedi e collo. E’ un sollievo indicibile, che ti fa tornare nuovo di zecca, così, mentre i commessi si divertono a scambiare quattro chiacchiere con me, io mi rigenero. Stasera ultima cena a Saigon con molluschi in salsa d’aglio, gamberetti al ginger, involtini primavera e tanto riso.

L’indomani dopo la colazione all’Hotel Madam Cuc 184 e i ringraziamenti allo staff tutto femminile, così onnipresente da sembrare che viva qui 24 ore al giorno, sono andato alla sede dell’agenzia Tnk Travel www.tnktravelvietnam.com, dove avevo prenotato un tour di tre giorni nel delta del Mekong.

Delta del Mekong - Mytho

Con il bus sono arrivato a Mytho, la città più vicina al delta da dove partono i tour sul Mekong, che qui si chiama Tien Giang. A Phnom Penh in Cambogia il fiume si biforca in due rami principali: il Tien Giang e l’Hau Giang. Il Tien Giang ossia il fiume superiore, si divide ancora a Vinh Long per poi finire nell’oceano in sei bracci distinti. Queste branche spiegano il nome vietnamita del fiume Mekong, chiamato Song Cuu Long, ossia il fiume dei nove dragoni. Il Hau Giang invece, chiamato anche Bassac o fiume inferiore, non si divide mai e attraversa le città di Chau Doc, Long Xuyen e Cantho.

A Mytho sono salito in barca per un primo assaggio del fiume che scorre lento e maestoso, con il suo color caffelatte, tipico del periodo delle grandi piogge. Mentre navigavo, mi veniva in mente l’estate del 1998 quando avevo visto il fiume per la prima volta, entrando nel Laos dal confine thailandese. Grazie a quell’incontro ho avuto un feeling particolare con il fiume, perché nei miei viaggi seguenti l’ho incontrato un sacco di volte, rincorrendolo e vezzeggiandolo come uno spasimante con la sua innamorata.

Il fiume è stato il mio compagno di viaggio di tante avventure indocinesi, neanche io ormai mi ricordo quante volte ci siamo rivisti. E incontrarlo qui, poco prima che sfoci nel mar cinese meridionale ha provocato in me una sensazione strana, perché era come se si chiudesse un ciclo, se avvenisse la quadratura del cerchio e stessi mettendo la parola “fine” alla mia rincorsa al Mekong. Strane sensazioni, sensazioni agrodolci che a poco a poco si sono stemperate, nel guardare l’immensità e la grandiosità del corso d’acqua. Il fiume color mattone si stagliava su un cielo blu con nuvole a pecorelle: era emozionante fissare la corrente e pensare al suo lungo viaggio, alle città attraversate, al percorso tortuoso come le budella di un intestino, che segna i confini dei paesi attraversati.  

Questi sono i luoghi che Marguerite Duras descrive nel romanzo “L’amante”. Pubblicato nel 1984, il libro narra le vicende in gran parte autobiografiche della Duras nel periodo in cui, tra i quindici e i diciassette anni, visse con la madre e i fratelli nell'Indocina francese, a Vinh Long, piccolo centro situato vicino al Mekong. La storia è quella dell'incontro tra Marguerite e il figlio di un ricco possidente cinese: un amore proibito non solo dall'età della ragazza, ma anche dalle differenze di razza e ceto. E’ un braccio di questo Mekong che la Duras descrive: durante la traversata sul traghetto, incontra quello che diventerà il suo amante cinese. La loro relazione, osteggiata dal padre del giovane cinese e usata dalla famiglia di lei per trovare un po' di sollievo ad una povertà frutto d’inganni e sfortune, termina nel momento in cui la madre della protagonista deciderà di ripartire per la Francia portando i figli con sè.

Carico di ricordi mi sono imbarcato su una giunca a motore che dopo avere attraversato i canali della città di Mytho, ha circumnavigato le isole che sorgono nelle vicinanze: l’isola del drago, della tartaruga e dell’unicorno. La parte migliore della navigazione è stata quella del pomeriggio: con imbarcazioni prima a motore e poi a remi, mi sono addentrato per canali sempre più stretti, che facevano aumentare il contatto con la natura tropicale. I canali erano bordati da alberi di cocco dagli alti fusti (quelli che producono le noci), mangrovie e palme dalle foglie larghe, i cui  rami erano simili ad enormi ventagli, che ricordavano quelli utilizzati dalla servitù per fare aria nelle antiche corti nobiliari.

C’è stato tempo anche per visitare una fabbrica di caramelle al cocco. Qui hanno mostrato ogni fase della produzione: la triturazione della polpa, la cottura, il raffreddamento e il confezionamento. Tutto interessante, con vari assaggi, non solo di caramelle, ma anche di vino di riso e di banana, di the al miele e all’arancio, mentre due donne vietnamite cantavano, accompagnate da strumenti a corda.

Delta del Mekong - Cantho

In autobus ho raggiunto Cantho che con i suoi 33.000 abitanti è la capitale della regione del delta: la città è accogliente e a misura d’uomo, un posto rilassante dopo il caos di Ho Chi Minh City. Anche dal finestrino il delta è interessante: si attraversano piantagioni di riso e banane, inframmezzate da una miriade di canali che ricordano la tela di un ragno.  Questa regione, definita in epoca coloniale come il granaio dell'Indocina, produce il 45% della raccolta di riso del paese, ed il Vietnam è il terzo esportatore di riso al mondo.

Ho dormito all’hotel Huy Hoang, albergo dignitoso e senza pretese e cenato sulla terrazza del ristorante Phuong Nam, con vista sul fiume. Anna Rita si è deliziata con una gran quantità di verdure, io invece ho scelto le rane: la specialità del posto. Erano buone ed appetitose ed avevano un sapore che ricordava il pollo fritto. Altre specialità del delta erano la carne di serpente, il topo di risaia e le interiora crude, tutte delizie che avevano il potere di terrorizzare Anna Rita, creando in lei una repulsione per il cibo vietnamita, che la faceva inorridire al  solo pensiero di un qualche piatto a base di carne.

 

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