Alla mattina il centro della città era congestionato, perché era in corso una manifestazione di simpatizzanti del partito DMK. Alla testa del corteo c’era il leader locale, Mister Vikko, dietro gli attivisti che marciavano per due file. Erano impettiti, fieri di indossare le loro divise nere con risvolti rossi, che li facevano somigliare a benzinai in tuta da lavoro. Due ali di folla osservavano lo strano corteo, io lo seguivo da un autorickshaw che mi stava portando al tempio Devarajaswami.

Ben presto ho raggiunto la testa del corteo, attorno a Mister Vikko c’erano i fotografi e gli operatori delle televisioni indiane che facevano le riprese dal cassone di un camion. Costui era acclamato come un papa o un re, si fermava a stringere mani e ad abbracciare bambini. Non sono mancati coreografici lanci di colombe bianche e doni da parte dei simpatizzanti. La presenza di un occidentale, ha suscitato la curiosità del leader, così ho scambiato qualche parola con lui, anche i cameraman hanno notato la scena, e stasera, all’ora del telegiornale, sarò in televisione. La città è tappezzata dai murales e dai cartelloni dei leader del DMK, uno ha una faccia paffuta che ricorda i commendatori dei nostri anni cinquanta, un altro indossa pesanti occhiali da sole all’Aristotele Onassis.

Dopo il bagno di folla sono arrivato al tempio Devarajaswami, dedicato a Vishnu e costruito dagli imperatori Vijayanagar. Merita una visita la sala per le nozze rituali degli dei, i cui novantasei pilastri recano scolpiti cavalieri in groppa ad animali mitologici e cavalli rampanti. Nella sala delle mille colonne invece, molte di queste rappresentano Vishnu nelle sue varie reincarnazioni d’animale: pesce, tartaruga, maiale. La vasca del tempio è colma d’acqua verde, qui gli indù fanno le abluzioni o lavano i vestiti, è anche popolata da una colonia di piccoli pesci, e se dai loro da mangiare, fanno ribollire l’acqua e si contendono il cibo fino all’ultima briciola. Ogni quarant’anni, la vasca sacra viene svuotata: contiene una statua sommersa di Vishnu e si dice che per l’occasione, arrivino dieci milioni di fedeli.

L’ottanta percento della popolazione della città è impegnata all’industria dei sari. I manufatti in seta di Kanchipuram hanno colori incredibili: per produrre sari così belli, occorrono almeno dieci giorni di lavoro, per non parlare di quelli più elaborati, i cosiddetti zari, tessuti a mano con fili di seta intrecciati con sottili fili d’argento ed oro, che arrivano a pesare oltre un chilo e mezzo. Alcuni sari sono prodotti su ordinazione, in questo caso occorre produrne in multipli di tre, il numero minimo per ottimizzare l’uso del telaio. L’industria della seta ebbe origine nel XVIII secolo, mentre nel 1949 un movimento comunista di tessitori fondò una cooperativa, la “Kamatchi Amman Society” per raggruppare e tutelare la corporazione. La società sopravvive ancora oggi e ha più di duemila membri. Ho sbirciato all’interno di uno dei negozi di Gandhi Road: brulicava di donne esigenti alla ricerca di uno di questi capolavori. I banconi traboccavano di tessuti, srotolati con sapiente noncuranza e mostrati in tutte le posizioni, per esaltarne la qualità e la gamma dei colori. Mi sono fatto contagiare anche io dalla febbre del sari e ne ho comprato uno dai riflessi dorati e aranciati.

In bus sono andato a Tirupathi (85 km.), una cittadina a venti chilometri da Titumala, uno dei più grandi centri di pellegrinaggio dell’India del sud: da qui prenderò il treno per Hospet. Alla stazione c’erano pellegrini sulla via del ritorno: intere famiglie con la testa rasata per avere assolto a qualche voto, facchini vestiti di rosso con le valigie sotto le spalle o caricate in testa, infermi ed anziani che faticavano a camminare e intralciavano il traffico pedonale. Poiché avevo fame, sono andato al ristorante della stazione. Ho ordinato un thali, e mi hanno dato un cestino da viaggio, con verdure, salse e riso, sigillati in bustine e pacchettini di plastica. Ho chiesto le posate, ma davanti al diniego, mi sono dovuto accontentare di un piatto di carta e ho dovuto usare le mani: un’esperienza divertente e disgustosa.

I compagni di viaggio del vagone letto hanno iniziato a farmi le solite domande: da dove venivo, se parlavo inglese e se mangiavo pizza tutti i giorni! All’alba sono arrivato a Hospet, il cielo aveva il colore dell’Apocalisse e come sottofondo canoro, c’era un mala augurante concerto di corvi. Ho preso una stanza all’Hotel Malligi: il personale era sgarbato e indolente come se fosse stato assunto per punizione, mentre i corridoi stretti e male illuminati ricordavano un penitenziario. Le camere però, erano meglio di quanto ci si potesse aspettare!

Hampi

Verso Hampi Bazar (13 km.), s’incontra un deserto di massi rossastri che ricorda il suolo lunare. Nel mezzo di questa selva pietrosa, s’intravedono i resti dell’antica Vijayanagar, “la città della vittoria”. Tra il XIV ed il XVI secolo, era la capitale del Deccan, ricca di splendidi palazzi e templi in stile dravidico. Ebbe il massimo splendore sotto Deva Raya che nel 1565 conquistò l’Orissa e si alleò con i portoghesi. Qui viveva mezzo milione di persone e la città si estendeva per quarantatrè chilometri quadrati. Nel 1509 arrivò la disfatta: i sultani dei cinque regni del Deccan si allearono, e in sei mesi misero a ferro e a fuoco la capitale. Vijayanagar fu abbandonata e diventò una città fantasma. Oggi è un museo all’aperto, un ammasso di rovine senza né capo né coda, inframmezzate da templi in ottime condizioni. Alcuni edifici sono stati restaurati in modo approssimativo, numerosi piloni di granito escono dal terreno, sono accatastati, o giacciono alla rinfusa. Altri rispettano gli schemi originari, ma ormai, delle antiche costruzioni in mattoni e stucco, sopravvive solo l’anima in pietra.

Le aree più interessanti sono due: il “centro sacro” con i templi più importanti, ed il “centro reale”, dove sorgono gli edifici civili. Salendo per un sentiero ripido e breve, si arriva alla collina Matanga: dalla cima si vedono il tempio Achyutaraya ed Hampi Bazar. Le coppie in attesa di un figlio salgono per depositare una pietra, e dopo la nascita del bambino, torneranno a toglierla. Camminare tra le rovine non impressiona, ma dall’alto le cose cambiano, perché si percepisce la visione d’insieme del luogo, così anche i danni provocati dal tempo e dagli invasori mussulmani sembrano meno evidenti.

Ho pranzato al ristorante Sri Venkataswara di Hampi Bazar, il cartello all’ingresso indicava che il locale era consigliato dalla guida Lonely Planet. Gli avventori erano giovani occidentali che ammazzavano il tempo ai tavoli, fortunati backpackers con molti mesi a disposizione per viaggiare in l’India o per il sud est asiatico. Il servizio era lentissimo: ai miei vicini di tavolo non importava molto, a me invece interessava eccome!

Poi ho avuto un “colpo di genio”: l’idea di noleggiare uno scooter, una “Honda Kinetik” per muovermi in assoluta libertà. Ho scorrazzato indisturbato per le strade di campagna, limitandomi a guardare dal sellino della moto le rovine, le coltivazioni di banane e canna da zucchero, le donne e i bambini che portavano a pascolare capre e bisonti. Tutto questo era troppo perfetto, così, davanti ad un meraviglioso arcobaleno e ad un tramonto che arrossava i campi di riso, ho forato una gomma e l’idillio bucolico è terminato. La gomma di scorta era inutilizzabile, così un guidatore d’autorickshaw si è offerto di andare a cercare gli attrezzi per smontarla e portarla a riparare.

Il vero problema non era la foratura, ma l’arrivo della notte. Già guidare di giorno è un’impresa, figurarsi con il buio! L’asfalto è una giungla senza regole dove spadroneggia chi ha il mezzo più grosso. Tutti tengono il centro della carreggiata perché ci sono meno buche, mentre i mezzi che sopraggiungono dal lato opposto, non tolgono gli abbaglianti e si guida alla cieca. E’ uno slalom tra ciclisti e pedoni, tra mucche che viaggiano contromano e camion fermi a fari spenti, su entrambe le corsie. Sembrava che i tredici chilometri verso Hospet non dovessero mai terminare, ma la cena al Maohu Paradaise, grazie all’Aloo Gobi (patate e cavolfiori), alle meravigliose verdure al curry e al montone, mi ha fatto tornare di buon umore.

L’indomani, dopo la colazione all’indiana, con riso, focaccia alle cipolle e lassi (bevanda a base di yogurt), sono risalito in moto: destinazione Hampi. Ho bucato ancora e mi sono fermato in un negozietto dove aggiustavano biciclette, il proprietario ne ha inforcata una e si è allontanato con la gomma sul manubrio. Quando mi sono rimesso in sella ho forato di nuovo: la camera d’aria era un colabrodo rappezzato chissà quante volte, così, ho deciso di mettermi a spingerla, perché farla aggiustare ancora una volta mi sembrava un azzardo. Il sole batteva forte e si sudava tanto, sono arrivato ad Hampi furioso, ma incapace per la fatica, di scaricare tutta la mia rabbia sul noleggiatore, che mi ha sostituito lo scooter con una potente Kawasaki cromata.

Mi sono diretto verso il “centro reale”, l’area chiamata Zenana, con templi, edifici pubblici, padiglioni, acquedotti e palazzi, che gli archeologi hanno individuato come la residenza dei re Vijayanagar. Gli edifici sono circondati da un’imponente cinta muraria: mi hanno impressionato il Lotus Mahal, una costruzione in stile indo saraceno utilizzata come area d’accoglienza, il palazzo della regina e la stalla degli elefanti, un edificio dove i pachidermi sfilavano durante le parate. Colpisce anche il Mahavami Dibba (casa della vittoria), un’area simile ad una costruzione a gradoni a tre piani in granito, ricca di sculture raffiguranti danzatori, guerrieri e sacrifici d’animali.

Poi sono stato alla collina Hemakuta e al tempio Vittala, caratteristico per il piccolo tempio in pietra situato nel cortile, a forma di carro processionale (ratha) trainato da elefanti e per la sala delle cento colonne, che se “toccate” con le nocche delle mani o con mazzuoli di legno, producono strani suoni che fanno venire in  mente le note musicali. Gli indiani ed il sottoscritto si divertono a “suonarle”, alcune, a causa di queste barbarie, si sono così assottigliate che prima o poi si frantumeranno. Le guardie del tempio fanno finta di non vedere e mostrano come ottenere un suono migliore. All’ora del tramonto, le colonne si sono arrossate, diventando come vive e fiammeggianti. Anche stasera ho mangiato al Maohu Paradaise, scegliendo un ottimo pollo alle cipolle e verdure in salsa tandoori.

 

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