Questo tempio ha avuto un ruolo importante nella letteratura tamil e nella filosofia vishnuita. Copre sessanta ettari e con i suoi ventuno gopura è forse il più vasto di tutta l’India. Il complesso vanta diversi stili, perché tutte le dinastie del passato hanno contribuito ad abbellirlo: Chera, Pandya, Chola, Hoysala, Vijayanagar e Nayak, ma i lavori continuano ancora oggi e il gopura più alto è stato terminato nel 1987.

E’ circondato da sette giri di mura: le prime tre sono una città all’interno del tempio, con le case dei bramini e un animato bazar con fedeli, venditori e nullafacenti. Poi inizia il tempio vero e proprio, ma sfortunatamente i non indù, non possono arrivare fino all’ultimo livello, dove c’è la statua dorata di Vishnu, sdraiato su un cobra a cinque teste. Si possono invece visitare “la sala delle mille colonne” e “la corte dei cavalli”, un mandapa con i pilastri della facciata adornati con cavalli rampanti, montati da cavalieri che combattono contro mostri: lo stile è quello Vijayanagar (XVI secolo). Anche qui, come alla “roccia sacra” occorre camminare scalzi sulla pietra ruvida, resa bollente  dal sole. Le famiglie dei pellegrini si riposano nei cortili ombrosi, mangiano riso e dal e lavano le stoviglie. Molti fedeli sembrano biondi, perché per penitenza, si sono cosparsi il capo rasato con polvere gialla.

Thanjavur

Ho preso il treno per Thanjavur (50 km.), l’antica capitale del regno Chola che si estendeva su tutta l’India del Sud. Dai finestrini, sbarrati da grate che mi facevano sentire come un topo in gabbia, guardavo gli striminziti campi di riso e le capanne con il tetto in  paglia, dalle fondamenta in mattoni e fango. Ho dormito all’Ideal River View Resort (http://www.idealresort.com/thanjavur.htm), un fantastico posto immerso nel verde. Appena arrivato, mi hanno fatto accomodare in giardino, offrendomi salviette rinfrescanti ghiacciate e una spremuta d’ananas. Ero terrorizzato per le conseguenze di questa magnifica accoglienza sulle mie finanze, ma mi sono sollevato quando ho scoperto che avrei speso l’equivalente di una cena in pizzeria!

Dopo il risveglio con una robusta colazione, servita in un capanno con vista fiume, sono andato al tempio Brihadishwara, il capolavoro della dinastia Chola, voluto nel 1010 dall’imperatore Rajaraja. E’ dedicato a Shiva Nataraja, il signore della danza cosmica, rappresentato nella posa classica del passo di danza, all’interno di un cerchio di fuoco. Ha due cinte murarie che racchiudono un quadrilatero, al centro del quale si erige la mole del vimana, il santuario principale a forma di torre. E’ alto 66 metri e consta di 13 piani, interamente scolpiti in granito.

Poiché nei dintorni della città non ci sono cave, si suppone che il materiale sia arrivato da molto lontano. Per innalzare il monolito, collocato in cima alla torre principale che si stima pesi ottanta tonnellate, fu utilizzato un sistema simile a quello sperimentato per costruire le piramidi egizie. Il complesso è ricco di sculture con makara (mostri mitologici, raffigurati secondo sembianze d’elefanti marini con coda di pesce), animali mitologici e divinità, ma le pietre riportano anche iscrizioni con i nomi di danzatori, musicisti e poeti.

La grandezza del posto si trova anche nel toro Nandi, scolpito in un blocco di granito nero, lungo sei metri ed alto quattro, che ogni giorno è unto con olio, per renderlo così brillante, da farlo sembrare di bronzo. Il lingam contenuto nel Santa Sanctorum è alto quattro metri e ha una circonferenza di sette, è tutto fasciato da drappi di cotone bianco e sembra che indossi un preservativo. Il posto è magnifico, lo rendono meno bello i riti dei bramini e le solite sgradevoli sensazioni: l’oscurità, la sporcizia e un odore che ricorda il formaggio rancido e l’ambiente chiuso.

Nel cuore della città vecchia ho visitato il palazzo dei Raja, i cui lavori di costruzione iniziarono attorno al 1550 per opera dei Nayak di Madurai e terminarono sotto i Maratha. E’ in condizioni precarie e alcuni padiglioni si trovano in uno stato di semi abbandono. Da qui, con una carrozzetta a pedali ho raggiunto la stazione dei bus: il guidatore, un omino secco come un’acciuga faticava maledettamente sotto il sole del mezzogiorno. Stava in piedi come se dovesse affrontare una salita e se mancava l’asfalto, scendeva a spingere.

Kumbakonam

In autobus sono arrivato a Kumbakonam (37 km.), città ricca di templi dedicati a Shiva e Vishnu. Qui ogni dodici anni, si svolge una gran festa: si dice che in tale occasione, all’interno del bacino sacro Mahamakha, le acque del fiume Gange scorrano invisibili. Nel tempio Sarangapani invece, vacche e buoi pascolano liberamente e si è costretti a fare lo slalom tra gli escrementi dei quadrupedi. Colpisce il gopura, ricoperto da statue dagli atteggiamenti osé. Ci sono donne che si toccano tra loro e coppie che fanno l’amore, ma nulla a che vedere con le famose “posizioni” dei templi di Khajuraho.

La città è polverosa: ovunque ci sono misere botteghe, sporcizia e gente che rovista tra i mucchi di spazzatura, assieme a vacche e bufali alla ricerca di cibo, sulla cui schiena si posano lugubri corvi. Anche la stazione dei bus è inquietante: brulica di persone vestite di stracci e donne mussulmane velate. Alcune sono di una magrezza cadaverica, altre enormi, con braccia grandi quasi quanto una gamba. I mezzi obsoleti e rappezzati accolgono i viaggiatori, mentre la polvere del piazzale ti entra nei vestiti. Salire su un bus è un’impresa, la gente si accalca davanti alle porte e non permette nemmeno a chi è arrivato di scendere, ci si spinge, e tutti cercano di scavalcare chi sta davanti. Le più scaltre sono le donne anziane, inconsapevoli di poter venire travolte. Una volta saliti in quest’ambiente appiccicoso che ricorda la “carta moschicida”, occorre ritagliarsi il proprio spazio vitale. Salgono anche i venditori di frittelle e frutta, poi si parte.

Mi sono seduto sul vano motore, ad osservare i duelli rusticani che l’autista ingaggia con gli altri mezzi a motore. Le orecchie fischiano perché l’autista, come sempre, fa un utilizzo spropositato del clacson: basta un’animale, una bicicletta, un camion. Appena intercetta un qualche cosa che si muove, lui strombazza! Fare il bigliettaio invece, sembra una punizione da girone dantesco: per ore costui fa su e giù tra un groviglio di corpi ammassati. Non si ferma mai, spintona ed è spintonato, suda e scende per dare una mano all’autista nelle manovre di parcheggio o alle fermate. Urla e se non riesce a farsi sentire, usa il fischietto.

A Chidambaram (70 km.), davanti alla stazione dei bus c’era il migliore hotel della città, il Saradharam: la hall faceva ben sperare, ma era tutta apparenza. Ho cenato in un “Pizza shop”, un fast food indiano, che offriva piatti del sud e pizze vegetariane. Il paper dosa non era dei migliori, ma il gelato e la spremuta al limone, mi hanno fatto dimenticare quello che avevo ordinato in precedenza. Nel Tamil Nadu, le spremute sono sempre una sorpresa: le più richieste sono quelle alla mela e all’ananas, seguite dal gusto arancia, melograno e limone.

Non ne posso più di vedere gopura e vimana, ma non voglio perdermi il tempio di Shiva Nataraja di Chidambaram, costruito tra il IX e il XIV secolo sotto il regno dei Chola. La leggenda dice che il re lo fece erigere per ringraziare il Dio che lo salvò dalla lebbra. Ha un recinto rettangolare con quattro ordini di mura e alti gopura di quarantanove metri, in corrispondenza delle quattro porte, orientate secondo i punti cardinali. Colpiscono le torri ricoperte di figure umane e mitologiche e gli interni in pietra finemente lavorata, su tutto, le 108 sculture che raffigurano Shiva nelle posizioni classiche della danza. Shiva danzante, rappresenta l’eterno movimento dell’universo, in costante trasformazione. Il simbolismo di questa danza è rappresentato dalla posa chiamata "Ananda Tandavam", nella quale il danzatore cosmico ha quattro braccia. Una mano destra tiene il “damaru” (un piccolo tamburello), simbolo di creazione attraverso il suono primordiale. In una delle mani sinistre c’è “agni” (il fuoco purificatore), che simbolizza l’immutabile evoluzione dell’universo, perché nulla è permanente; l'altra mano destra fa un gesto che rassicura, l'altra mano sinistra, un gesto che protegge. Il suo piede sinistro levato, evoca la liberazione e il saluto; il suo piede destro, schiaccia il demone dell'ignoranza e del male.

Colpiscono meno la sporcizia e un onnipresente odore di formaggio rancido che ti accompagnano sempre all’interno dei templi. Qui, bramini ben pasciuti e dal fare indolente, sono particolarmente insistenti nella caccia al turista. Appena ti vedono, attirano la tua attenzione, t’invitano a mettere il nome nel libro delle donazioni e ad aprire generosamente il portafoglio.

Pondicherry

Dopo avere pranzato con l’immancabile masala dosa, ho raggiunto Pondicherry (80 km.), città che fino al 1954 era una colonia francese, famosa per l’ashram di Sri Aurobindo, uno dei più popolari di tutta l’India. Anche i nomi delle attività commerciali si rifanno ad Aurobindo: l’Ashram Guesthouse è un albergo, l’Aurotravel un’agenzia di viaggi, l’Auropress una casa editrice, ma ci sono anche l’Auroboutique e l’Auro Post Office.

Non mancano le reminescenze francesi: il Comune si chiama ancora “Hôtel de la Ville”, la polizia indossa il kepis, il rosso cappello che sa tanto di legione straniera, le strade riportano il nome nelle due lingue, anche alberghi e ristoranti sono un fiorire di ricordi: “Hotel de l’Orient, La Terrasse, Rendevous”. Le facciate delle case e i boulevard ordinati sanno poco d’India caotica. Si cammina volentieri per il lungomare, godendo della brezza dell’oceano, mangiando un gelato o bevendo finalmente una birra. La città è ricca di negozi, i più belli sono quelli che espongono elaborati sari di seta.

 

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