Dopo la visita al memoriale di Gandhi, uno dei posti dove furono sparse le ceneri del Mahatma, sono entrato al tempio Kumari Amman. All’esterno è un cubo dipinto con strisce bianche e rosse, qui gli uomini devono entrare a torso nudo. Un bramino mi ha guidato tra scuri corridoi in pietra, altari e l’immancabile puzza d’urina. Costui mi faceva inginocchiare e prostrare davanti ad ogni altare, mi ha messo olio santo e polvere colorata in fronte, mentre il rito più bizzarro è stato quello delle candele. Ho fatto roteare un piatto davanti ad un altare, facendo una serie d’inchini e prostrazioni, come avevo visto fare al tempio giainista di Sravanabelagola. All’inizio ero indispettito, poi l’ho presa sul ridere!

Davanti a Kanyakumari c’è una piccola isola rocciosa che si raggiunge in traghetto. Ospita il memoriale del filosofo Vivekananda, il fondatore dell’ordine monastico Ramakrishna, costruito per commemorare la sua visita, quando meditò per tre giorni, seduto su una roccia. All’interno del mandapa c’è una statua, che lo fa somigliare ad un fiero condottiero, che indossa un turbante da gran visir. Si paga un biglietto d’entrata e uno per la custodia delle scarpe, e anche qui, come nei templi indù, le legioni dei poveracci, imbevuti di religione e rassegnazione, terminano la visita facendo cospicue offerte ai bramini. E’ curiosa la stanza di meditazione, un luogo buio, dove era illuminato il simbolo dell’Om e una voce registrata continuava a ripetere: ”Om, om, om, om, om”. Mi sono seduto a meditare, ma con scarsi risultati! Le onde enormi infrangono gli scogli e il vento fa ribollire l’acqua color verde smeraldo: peccato andare via.

In taxi, un’Ambassador bianca color avorio, nella quale si sprofondava tra i velluti, mi sono fatto portare alla stazione dei bus. Ho impiegato sette ore per arrivare a Madurai, per percorrere meno di trecento chilometri. Vista la lentezza del bus, era meglio prendere il treno.

 

 

Madurai

A Madurai sono finito al Supreme, un hotel con un nome che evocava delizie da alta cucina francese, ma con lenzuola spiegazzate che ti lasciavano nel dubbio sulla loro pulizia. Era tardi ed avevo sonno, così ho cenato con untuosi snacks fritti e una frittata comprata sulle bancarelle. Non c’erano posate, e come un vero indiano del sud, mi sono dovuto arrangiare con le mani! Il nome Madurai significa “la città del nettare”, perché Shiva, nel giorno in cui doveva essere scelto il nome, lasciò cadere alcune gocce d’ambrosia dalla sua lunga capigliatura.

Sazio e disgustato, dopo la colazione con masala dosa, appam, salse al cocco e brodi vegetali, sono andato a cambiare un po’ di euro. Le operazioni di cambio alla “State Bank of India”, sono state lunghe e laboriose: dapprima davanti al travet di turno, mi hanno fatto accomodare su un divano sfondato, poi ho compilato un lungo questionario. Finalmente mi hanno dato il denaro, mazzette di cartamoneta da cento rupie, che mi facevano sentire un losco figuro, un “banchiere di Dio” o un qualche cosa del genere. È seguita subito un’altra elaborata operazione: la prenotazione dei successivi spostamenti in treno. Dopo numerose richieste d’informazioni e repentini cambi di programma, sono arrivato all’ufficio prenotazioni. Qui si aspetta pazientemente il proprio turno: è un’esperienza che fortifica e induce a lunghe meditazioni introspettive, causate dei biblici tempi d’attesa!

Madurai è una città caotica, un gran bazar con mille attività, tutto gravita attorno al tempio Meenakshi situato nel cuore della città vecchia, che accoglie diecimila fedeli il giorno. E’ un polo d’attrazione e una fonte di guadagno per gli abitanti della città, che vivono di commercio e fede: c’è il mercato dei fiori dove si acquistano i boccioli per le ghirlande, centinaia d’alloggi per tutte le tasche e ristorantini vegetariani. Ovunque ti giri, spuntano questuanti alla caccia di qualche rupia, guidatori d’autorickshaw e procacciatori che ti propongono il tour della città, la visita di una sartoria o un negozio di souvenir. Dalla mattina fino alla  sera, sei attorniato da quest’esercito pittoresco che tenta di sfiancarti. Non ti puoi nemmeno rifugiare in qualche tempio per riposare, perché anche qui, ti assalgono i bramini alla ricerca di donazioni.

Come un pesce in padella, nelle vicinanze del tempio Meenakshi, sono stato attirato nel più classico dei raggiri indiani. Il posto è circondato da un alto muro e dall’esterno si vedono solo le dodici torri piramidali (gopura), ricoperte da elaborate sculture policrome raffiguranti il pantheon indù. Sono divise in tre cinte murarie e la loro altezza arriva fino a sessanta metri. Un uomo mi ha avvicinato dicendomi che ero fortunato, perché oggi si sarebbe tenuta una festa all’interno del tempio, ma poiché a quest’ora era chiuso, la cerimonia poteva essere vista salendo all’ultimo piano di un edificio governativo. Costui continuava a mettermi fretta, e nella concitazione, non mi sono accorto che invece di entrare in un edificio pubblico, sono entrato in un negozio, gestito da barbuti commercianti Kashmiri.

Naturalmente non c’era nessuna cerimonia, ma solo un bel panorama dal tetto del negozio. Non ho comprato nulla, nonostante gli scaltri tentativi dei Kashmiri di vendermi qualche cosa. Ne sanno una più del diavolo, conoscono mille tattiche e senza che te n’accorgi, ti fanno il lavaggio del cervello. Ti mostrano stanze con oggetti meravigliosi come tappeti, sete e gioielli. Ma come nel gioco delle scatole cinesi, quando pensi di avere terminato la visita e di poter andare, subito ti conducono nella successiva. Poi ti stordiscono con le parole, cercano di creare in te sensi di colpa. Si lamentano che questo è un mese morto, c’è poco turismo e in queste settimane così fiacche, si accontenterebbero di vendere al prezzo di costo, per avere di che mangiare e vestirsi!

Uscito dal negozio, sono andato al Puthu Mandapa, un mercato coperto, che si trova all’entrata del tempio Meenakshi, specializzato nella vendita di stoffe e famoso per l’abilità dei sarti che confezionano vestiti su misura: anche qui si sprecano i “sir”, i “madame” gli “yes please” e i “come on please”. Invece al mercato dei vegetali e dei fiori, erano rimasti gli scarti, così il terreno era ricoperto da foglie e vegetali in decomposizione. L’olezzo era tremendo e si camminava su un suolo molle e scivoloso.

Poi ho visitato il tempio Meenakshi, voluto da Tirumala Nayak (1623-1659), sovrano della dinastia dravidiana e dedicato a Shiva e a Meenakshi, “la dea dagli occhi di pesce”. E’ enorme, ricco di colonnati, cortili interni, soffitti colorati, statue con divinità mitologiche, mostri fantastici, animali e affreschi dalle tinte forti. All’inizio sembra di entrare in un labirinto, poi ci si orienta. Facendo lo slalom tra questuanti e venditori, sono arrivato fino all’immagine di Meenakshi, che si trova in una zona riservata ai soli indù. Per accedere, ho affermato che anche io ero di religione indù (Dio mi perdoni), e mi sono messo in fila assieme a decine d’uomini che procedevano lentamente verso il Santa Sanctorum. C’era un’umidità terribile e pensavo a quanto era irreale assistere a questi riti atavici, tra bramini che dispensavano benedizioni, tra riti con il fuoco e fedeli che portavano in dono alla divinità fiori e cesti di frutta. In altre zone si ricoprivano di cenere e ghee le statue di Ganesh, si girava per nove volte attorno alle cappelle minori o si adorava il lingam di Shiva.

Un ricco signore aveva organizzato una processione propiziatoria: l’immagine di Meenakshi veniva portata lungo il perimetro del tempio, su un carro ricoperto da centinaia di lampadine. Il corteo era aperto da suonatori di tamburi e da uomini a torso nudo che reggevano gli ombrelli cerimoniali. C’era anche un vecchio elefante dall’aria stanca e rassegnata, che prima di prendere parte al corteo ha fatto alcuni litri di pipì in un secchio e la cacca sul pavimento del tempio. L’ultima tappa è stata alla sala delle mille colonne: alcune di queste, se sono toccate, producono un suono simile alle note musicali. Il tempio mi è piaciuto, nonostante questi riti bizzarri che non mi entusiasmano: è finemente lavorato e possiede una storia, antica più di cinquecento anni. Cena al ristorante dell’Hotel Supreme, con una bella vista sul tempio illuminato, ma il conto era salato e il cibo, il peggiore di tutto il viaggio.

Tiruchirapalli

Di prima mattina ho preso il treno per Tiruchirapalli, 66 km. da qui, (chiamata da tutti Trichy). Viaggiare in vagone, dopo giornate passate su scomodi autobus, sembra un sogno! L’attrazione principale della città è la “roccia sacra”, un tempio che si trova su un monolite di roccia che fa venire in mente Ayers Rock. Nell’antichità era una fortezza, costruita sotto la dinastia Pallava, poi nel XVI secolo arrivarono i Nayak che sfruttarono appieno la sua posizione strategica.

Ai piedi della salita c’è il tempio dedicato a Ganesh, il dio elefante: i sacerdoti innaffiano la statua con secchi colmi di latte e la cospargono di fiori. Alcuni devoti si bagnano e benedicono i bambini con questo liquido color marrone, che fuoriesce dai canali di scolo del tempio. Per arrivare alla cima della collina, occorre salire per un lungo tunnel e per una gradinata scavata nella roccia, dall’alto si vede la città, costruita in modo selvaggio, con case le une ammassate alle altre. In lontananza appare il fiume Cauvery e a quattro chilometri, il tempio induista Sri Ranganathaswami immerso tra le palme, con il suo gopura che sembra una piramide egizia.

 

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