Ho cenato sulla terrazza del ristorante Shilpashri, che dà su Piazza Gandhi: si mangia bene, ma occorre far finta di non vedere la macchie d’unto sulle tovaglie sporche. Dopo un ultimo sguardo al palazzo del maharaja, sono tornato al mio albergo in stile coloniale.

Risvegliato da una sontuosa colazione “indo continentale”, un insieme di pietanze dai sapori appetitosi se gustati singolarmente, ma poco intriganti nel loro insieme, mi sono incamminato verso Chamundi Hill. Lasciato l’albergo, si è materializzata una corte dei miracoli che s’ingrossava ad ogni passo. Tutti volevano propormi un qualche cosa: dalla visita a negozi, fabbriche di seta o di legno di sandalo, all’acquisto di flauti a forma di zucca. Ero anche circondato da storpi, accattoni e bambini che cercavano una penna in regalo, una caramella o qualche rupia.

La collina Chamundi, dall’alto dei suoi 1062 metri, domina Mysore. Si può salire per la strada asfaltata (quattordici chilometri), al ritorno invece, è più divertente percorrere la ripida scalinata con più di mille gradini. In cima c’è il tempio Sri Chamundi dal caratteristico gopura (torre) bianco, alto quaranta metri e ricoperto da centinaia di statue. All’interno occorre togliersi le scarpe, ed è sgradevole camminare a piedi nudi sul marmo, reso viscido dalla pioggia e sentire sotto la pianta dei piedi, una poltiglia di riso e fiori. Ero incolonnato tra pellegrini indù, famiglie con bambini in braccio e scimmie che mangiavano il riso, depositato in prossimità degli altari. Tutti erano prostrati davanti al Santa Sanctorum e s’inginocchiavano di fronte a bramini ben pasciuti, che svogliatamente elargivano polvere di tikka, acqua santa, cenere e benedizioni.

Il posto non mi è piaciuto e non ho trovato nulla di mistico, sempre impegnato nel respingere l’assedio dei venditori di cartoline, oggetti sacri, fiori e ghirlande da offrire agli Dei. Lungo la discesa, s’incontra la statua del toro Nandi (il toro cavalcato da Shiva, simbolo di giustizia e saggezza), alta cinque metri e ricavata da un monolite di roccia. È del 1659 e anche qui, i pellegrini offrono prasad (cibo e fiori) al bramino che riceve le offerte ai piedi della statua.

Un autorickshaw, che ad ogni accelerazione sembrava dovesse esalare l’ultimo respiro, mi ha portato al Palazzo Lalitha Mahal, costruito nel 1921 per accogliere gli ospiti del maharaja. Il palazzo è tutto bianco, con sfumature gialle all’esterno e corridoi interni verde turchese. L’architetto si è ispirato alla cattedrale di San Paolo a Londra, ma tutto il complesso è un misto di Casa Bianca, Campidoglio e Altare della Patria. Ora è un hotel di lusso e per oltre un’ora ho potuto visitarlo ed esplorarlo. La scalinata all’ingresso di marmo rosa ti accoglie con una tigre imbalsamata che giganteggia e si riflette in un grande specchio. Le camere intrigano: su tutte, la suite con arredi d’epoca, i sanitari in porcellana inglese e i pavimenti di marmo di Carrara. Non da meno sono i lunghi corridoi, i saloni, il bar con il biliardo reputato il migliore di tutta l’India, i giardini con una piscina che solo nel guardarla, è un invito a tuffarsi dentro.

Ho incontrato un gruppo di bambini, che si riposavano all’ombra degli alberi di pomelie gialle e bianche nell’attesa di tornare a scuola. Erano spensierati, bambini che potevano vivere la loro infanzia, con sguardi differenti da quelli incontrati per le strade di Mysore: quelli di piccoli procacciatori, arruolati dai commercianti per portarti nelle loro botteghe in cambio di qualche rupia.

Recuperato lo zaino, ho preso il bus per Hassan, cittadina a tre ore da qui, base ideale per visitare i vicini templi Hoysala di Belur e Halebid. Ho pernottato e mangiato un thali all’Hotel Suvarna Regency. Il nome thali deriva dal tipo di piatto in cui è servito: un gran vassoio rotondo individuale, in cui sono presentate tutte le vivande. Nel nord è di metallo, rame, acciaio o argento, secondo la ricchezza della famiglia o il tipo di pasto. Nel sud e nelle case contadine ci si accontenta di una gran foglia di banano. Le pietanze delicate o semiliquide sono disposte in piccole ciotole chiamate katori e disposte sul thali, mentre quelle asciutte sono posate senza un ordine determinato, direttamente sul piatto. Il thali si mangia con le mani e il pane serve da utensile. Se i commensali si servono con le punte delle dita, significa che vengono dal Nord, se prendono gli alimenti a piene mani, sono persone del sud. L'eleganza esige di prendere il cibo lentamente con le prime tre dita della mano destra, senza sporcarle oltre la prima falange.

Hoysala, Belur e Halebid

Dopo una colazione con dolci mielosi che mozzavano il fiato, sono andato a Halebid, dove sorgeva Dvarasamudra, l’antica capitale della dinastia Hoysala che regnò dal 1100 al 1310, l’anno della conquista mussulmana. Il tempio più bello è l’Hoysaleshwara, dedicato a Shiva e Parvati, con la caratteristica pianta a stella ed il tetto piatto. L’orizzontalità di queste strutture è dovuta all’incompletezza od alle distruzioni che hanno colpito molti santuari, ma pur mancando la copertura, il profilo dei templi ricorda una struttura piramidale. Caratteristiche sono anche le colonne, con sporgenze e rientranze che fanno pensare a dischi ed anelli impilati di varie dimensioni. Le pareti esterne sono decorate da fregi multipli in bassorilievo, disposti a strisce sovrapposte che raffigurano animali e motivi decorativi che si ripetono all’infinito. Molte sculture raffigurano il re Sala, il fondatore della dinastia, che lotta e sconfigge una tigre.

Il tempio è ricoperto da sculture modellate nella steatite scura, talmente fini da fare sembrare le pietre, lavorate come gioielli. Meno belli sono il tempio Kadereshwara e il Parashvanath, dedicato al culto Jaina.

Qui un sacerdote in cambio di un obolo, mi ha fatto da guida, parlandomi d’alcuni aspetti di questa religione. I giainisti si rifanno ad un'antica tradizione indù rinnovata nel VI-V secolo a.C. da Vardhamana, denominato Mahavira (il grande eroe) e Gina (il vittorioso), l’ultimo di una serie di ventiquattro maestri chiamati Tirthankara. I giainisti hanno un loro canone di testi sacri e si dividono in due correnti: gli Svetambara, ossia coloro che indossano un vestito bianco e i Digambara, gli ignudi, coloro che indossano il vestito del cielo.

Gli Svetambara possiedono solo un abito bianco, una ciotola per elemosinare il cibo, un bastone, una scopa per rimuovere gli insetti dal loro cammino e una pezzuola sulla bocca per non nuocere ai batteri dell’aria. I Digambara invece, sono i più anziani, i più eruditi sulle Scritture, i più perfetti sul piano della condotta, della fede e della conoscenza. Non possiedono nulla e vivono del cibo offerto in elemosina che ricevono nel cavo della mano. Digiunano, non parlano, stanno ritirati in grotte o nei boschi, soprattutto da quando i musulmani e gli inglesi bandirono la nudità dall’India. Talvolta i Digambara sono ridicolizzati dagli occidentali, poiché, ad un giudizio superficiale, rappresentano un’anacronistica realtà.

La spiritualità giainista si basa sulla regola aurea dell’Ahimsha, in altre parole, il nutrire un profondo amore per la vita, tale da non avere o alimentare alcun istinto ad uccidere o ferire. I monaci e gli asceti, oltre a non cibarsi d’alcun animale, non si cibano neppure di tutte quelle creature vegetali che contengono principi di vita, estirpando le quali si uccide l'intera pianta e quindi l’anima, come bulbi, germogli, radici e patate. E’ bandito anche il miele, prodotto mettendo in pericolo la vita delle api. Bevono l’acqua entro quarantacinque minuti se è stata filtrata, ed entro ventiquattro ore se è stata bollita, altrimenti la vita potrebbe rinascere. Nel giainismo non vi sono né sacerdoti né gerarchie, non si trovano dogmi o intermediari.

E’ una religione senza Dio, viene proposta una spiegazione scientifica dell’origine dell’universo, eterno e increato. Vi è il superamento della necessità di rappresentare un creatore: Dio è l’Essenza vitale che anima ogni singola creatura nell’infinito universo, senza distinzioni né separazioni legate ai corpi materiali. Ogni vivente porta dentro di sé il marchio di un’appartenenza più grande: ogni vivente è, esso stesso, rappresentazione dell’Eterno, e aspira a liberarsi del corpo materiale per rifondersi nell’Assoluto.

Secondo la dottrina giainista il mondo è eterno ed indistruttibile, circondato dallo spazio assolutamente vuoto. Esso ha un’estensione enorme, ma definita. In mezzo si trova la terra che è rotonda, con il Monte Meru al centro, intorno a lui si raggruppano mari e continenti, in forma d’anello. Sotto la terra, nelle regioni sotterranee, abitano i demoni, mentre in quelle infernali, a vari gradi, i dannati scontano le pene, che non sono eterne. Sulla terra torreggiano i cieli, anch'essi a vari gradi, occupati dalle numerose classi di Dei che sono mortali. Nella parte più alta stanno i "liberati", quelli che non si reincarneranno più. I giainisti non credono nella dottrina ciclica, caratteristica dell'Induismo, ma ritengono il cosmo stabile ed il suo ordinamento immutabile. Solo nella zona abitata dagli uomini si verificano epoche ascendenti e discendenti. Oggi viviamo la penultima età di decadenza, dopo di che, il mondo tornerà in ascesa.

Nel pomeriggio ho visitato Belur, cittadina famosa per il tempio Channekeshava dedicato a Vishnu, costruito nel 1116, i cui lavori durarono oltre cent’anni. Al centro del recinto sacro c’è il tempio principale, mentre ai lati ci sono quelli più piccoli, tutti riccamente lavorati, ma quelli di Halebid mi sono piaciuti di più.

Tornato ad Hassan, ho cenato con pollo Tikka masala (pollo cotto al tandoori, ossia in un forno d’argilla, con salsa di cipolle e pomodori. Il tandoori è un forno speciale, a forma di grande giara dal collo ristretto, interrato nel suolo fino al collo, probabilmente originario dell'Asia Centrale. Quando le sue pareti diventano incandescenti e non ci sono più fiamme, si procede alla cottura degli alimenti. La cucina tandoori è anche un modo di preparazione, perché carne e pesci vengono fatti marinare in una mistura di yogurt, limoni e spezie).

 

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