S’incontrano barche cariche di gente e di prodotti della terra, talvolta si vede il bagliore blu di un martin pescatore o il verde di un parrocchetto. I canali, per il massiccio uso di fertilizzanti, sono tappezzati dal muschio di un bel colore smeraldo, una seria minaccia all’ecosistema, perché toglie luce e ossigeno. In poco più di un secolo, l’area delle backwarters si è ridotta di due terzi: paludi, foreste di mangrovie e popolazione ittica, sono state decimate dall’inquinamento e dall’espansione di città e villaggi.

Nel pomeriggio sono stato in riva all’oceano: c’era una lunghissima spiaggia di sabbia fine e una foresta di palme. Sfortunatamente la battigia era popolata da lugubri corvi che facevano venire in mente il film “Uccelli” di Hitchcock. Fare il bagno era impossibile e l’acqua verde ricordava il passato di piselli, così mi sono limitato a passeggiare tra ragazzi che giocavano a cricket e famiglie che si godevano il tramonto, inseguito da un codazzo di bambini, alla ricerca di una penna o di qualche rupia.

Sulla via del ritorno ho consultato un medico ayurvedico, perché Anna Rita, la mia compagna di viaggio, non andava di corpo da diversi giorni. Il luminare ha preparato una pozione colore nocciola dal sapore di terra e pepe: il beverone ha fatto effetto e finalmente, l’intestino d’Anna Rita ha ricominciato a funzionare. Che strano, in un Paese dove i viaggiatori soffrono di dissenteria, qualcuno ha il problema opposto! Il medico le aveva vietato di mangiare fino all’indomani, così sono andato da solo all’Annapoorna, un ristorante vegetariano che si trova davanti al molo. I piatti serviti si contavano sulle dita della mano: ho ordinato un paper dosa, il solito pane fritto, leggero come carta di riso, da accompagnare a verdure, salse di cocco e sambar (salsa con peperoncini rossi e semi di coriandolo).

Alla mattina ho attraversato in barca il lago Vembanad, poi ho preso un autobus fino a Kottayam e sono andato alla chiesa di Santa Maria a Manarad, perché in questi giorni si festeggia il “Manarcad Perunal”, l’Immacolata Concezione, festeggiata dalla comunità della Chiesa cattolica dei cristiani di San Tommaso. http://www.malankarachurch.org/ In India, il cristianesimo ebbe origine nel 52, quando San Tommaso apostolo sbarcò nel Kerala e per primo, portò il messaggio cristiano in questa terra. Nel 345, quattrocento cristiani siriani guidati da un mercante, Tommaso di Cana, convertirono i cristiani del Kerala, così l'intera comunità adottò riti e liturgie della chiesa siriana di Antiochia. Il suo capo porta il titolo di “Patriarca ortodosso siriano di Antiochia e di tutto l'Oriente” e risiede a Damasco, in Siria.

I problemi iniziarono con le spedizioni del XV e XVI secolo, quando i portoghesi arrivarono a Goa. All'estremo sud del subcontinente, trovarono con grande stupore, fedeli radicati nella tradizione apostolica. Fu tremendamente difficile per questi europei, paladini del Papa di Roma, accettare una fede legata alla tradizione ortodossa orientale. Per questi motivi, il contatto fra la Chiesa latina e quella orientale si trasformò in scontro frontale. Gli stessi portoghesi, esigerono la “conversione” dei cattolici di Tommaso, che così si sentirono trattati alla stregua d’infedeli. Costoro giurarono che mai e poi mai avrebbero obbedito ad un vescovo latino e chiesero aiuto, alla Chiesa orientale.

Nacque così la Chiesa siro-ortodossa giacobita, che continuò a vivere nell’ambito dell'ortodossia. Da essa, nei secoli successivi, in mezzo a sviluppi complessi e macchinosi, si staccarono due gruppi che, riunendosi a Roma, costituirono la Chiesa siro-malabarese e quella siro-malankarese, che oggi, seppur legate all'antica liturgia orientale, sono in comunione con la Chiesa cattolica. Pochi potrebbero contestare che la condizione attuale di questa Chiesa sia indù per cultura, cristiana per religione e orientale per culto. Essa è riconosciuta siriaca per i suoi legami con la Chiesa siriaca orientale e con la lingua siriaca, in uso nella liturgia fino al 1968, quando per la prima volta la Santa Messa fu celebrata in malayalam, la lingua-madre del Kerala.

Muthukkuda (ombrelli multicolori), chendas (tamburi sacri) e perfino gli elefanti, elementi essenziali delle feste indù, fanno parte delle processioni della Chiesa siro-malabarica e anche le ricorrenze e i digiuni cristiani, sono in armonia con le tradizioni locali. In un paese dove inginocchiarsi è un fatto insolito, i cristiani di San Tommaso si accovacciano per terra durante le funzioni religiose, proprio come gli indù. Le profonde radici nella cultura locale dei cristiani di San Tommaso si possono desumere anche dai loro nomi, che manifestano derivazioni indigene, mentre i nomi dei cristiani, convertiti dal XVI secolo in poi, tradiscono legami europei. Così, per esempio, un cristiano di San Tommaso si chiama Thoma o Thomman invece di Thomas, Ouseph al posto di Joseph, Mathai invece di Mathew, Devassy invece di David, Porinchu e Pranchi al posto di Francis, Mariam e Mariamma invece di Mary, Annama corrisponde ad Anne, e Plemena a Philomina.

In India ogni occasione è buona per festeggiare: matrimoni, manifestazioni religiose, il ritorno di un emigrante dall’estero, ma a Manarad l’atmosfera è diversa, la chiesa di Santa Maria, ricorda più un santuario dove si va a chiedere una grazia, piuttosto che un luogo di festa. Molta gente arriva per pregare, digiunare e chiedere una grazia. Attorno alla chiesa, sotto enormi tettoie in lamiera, sono accampate le famiglie. Si tratta di un’umanità sofferente in composto silenzio: c’è chi dorme, chi prega, bambini con menomazioni fisiche.

La chiesa rimane aperta giorno e notte e i fedeli percorrono il perimetro esterno, con parasoli rossi ornati di lustrini chiamati muthukkudas. E’ strano vedere donne in sari e uomini in dhoti che pregano e accendono candele, con orazioni e gestualità che ricordano i riti indù. L’interno della chiesa è in stile arabeggiante, con lampadari di cristallo e luci al neon: solo le croci ricordano che si tratta di un luogo cristiano. Tutto attorno, le bancarelle vendono dolci, giocattoli e immagini religiose. Gli altoparlanti martellano i timpani con i discorsi di preti dalle barbe ben curate, somiglianti a seguaci d’Osama Bin Laden, che indossano tuniche bianche e buffi cappelli.

Nel pomeriggio ho assistito alla processione, dove si trasportava un albero di cocco. Il tronco dell’albero, veniva lanciato in aria tra le urla dei fedeli, poi è stato tagliato, per ricavarne una croce, benedetta dagli ecclesiastici. C’era anche una sgangherata banda musicale, ma gli elementi non riuscivano a tenere il tempo ed a suonare assieme, cosicché sembrava di vivere una scena tratta da un film di Fellini.

Tornato a Kottayam ho preso la barca per Alappuzha: il viaggio è durato quasi tre ore e questa è stata la traversata più bella. Nel tardo pomeriggio il sole avvolgeva tutto, i canali sembravano dorati, l’acqua limpida e i pesci guizzavano. La navigazione notturna è stata una sorpresa, c’era un buio assoluto, interrotto solo dalla luce fioca delle lanterne delle barche e dalle luci delle poche case: un presepio in stile backwarters.

Alla sera sono andato a mangiare al ristorante del Prince Hotel, il migliore della città, deliziandomi con un murgh malai kebab (cosce di pollo marinate con formaggio, panna, coriandolo fresco e noce moscata), peccato che non servivano birra!

Alla mattina, Mister Magoo era meno disponibile del solito, perché erano arrivati i nipoti da Kochi. Oggi continuo nel mio viaggio verso il sud, la meta sarà Capo Comorin, l’estrema punta dell’India. In quattro ore d’autobus “superfast” ho raggiunto Trivandrum, e da qui, nel tardo pomeriggio, sono arrivato a Kanyakumari. Il paesaggio è cambiato: non più le backwarters, ma alberi di cocco e piantagioni di banane.

Kanyakumari

Ho trovato una stanza bella e pulita al Lakshmi Tourist Home; non da meno, è stata la cena al ristorante Maadhini, con pesce al curry, raita, crema di lenticchie e pomodori fritti. L’indomani, alle cinque e mezza del mattino è suonato il campanello della stanza, era il segnale che stava arrivando l’alba. Nel buio della notte mi hanno portato una tazza di chai, poi mi sono incamminato verso la spiaggia.

Queste acque sono ritenute sacre, perché a Kanyakumari finisce il subcontinente indiano e s’incontrano tre oceani: baia del Bengala, oceano indiano e mare arabico. E’ anche un luogo denso di significati per i pellegrini indù, che arrivano da tutta l’India per pregare al tempio dedicato a Devi Kanya, l’incarnazione di Devi, moglie di Shiva. La leggenda narra che Devi decise di rimanere vergine (Kanya), per salvare il mondo dalle atrocità dei demoni e dal caos.

Ben presto, mi sono ritrovato in compagnia di pellegrini indù, venditori di souvenirs, fotografi ambulanti e turisti indiani che si spintonavano per fotografare l’alba. In questo “circo Barnum” che sapeva poco di spiritualità e molto di gita fuori porta, il sole è salito in cielo in un attimo. Poi sono andato verso i ghats, per assistere al bagno e alle abluzioni rituali nell’oceano. Alcuni fedeli sembravano in preda ad autentico misticismo e fervore religioso, ma i più, giocavano con schizzi e onde. In riva al mare, l’assalto dei venditori era poderoso, i bramini offrivano complicati riti, mentre cartomanti e indovini cercavano di interpretare il futuro.

Verso le otto di mattina ha iniziato a fare caldo, in spiaggia sono rimasti gli ultimi venditori di conchiglie, mentre le donne facevano asciugare al sole i sari bagnati: erano lunghissimi e il vento poderoso dell’oceano li gonfiava come vele. Ho curiosato tra le bancarelle che esponevano paccottiglia in plastica e belle conchiglie: da quelle rituali a quelle in madreperla. In una di queste, ho incontrato un italiano che vive a Kanyakumari da sei anni, ha sposato un’indiana e tira a campare vendendo oggetti d’artigianato locale. Ha affermato che per uno straniero, vivere qui non è facile e soprattutto, occorre una gran motivazione. Come dargli torto?

 

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