L’indomani ho fatto un’autentica colazione indiana con masala dosa (crêpes salate ripiene di patate, cipolle e curry), idli (ciambelle che ricordano la mollica del pane), da intingere nelle salse chutney di cocco e di legumi (il chutney è un condimento speziato a base di frutta, aceto, zucchero e spezie. Alcuni chutney sono freschi, acidi e profumati, come alla menta o al coriandolo. Altri sono vere e proprie conserve, densi come marmellate, agrodolci e piccanti). Non ancora soddisfatto, ho ordinato una gran crêpe salata di pasta fritta (paper dosa), da accompagnare alle solite salse. Ho mangiato tutto, ma mi sono stomacato per quest’overdose di fritture e mi sentivo pesante come un palombaro.

Sravanabelagola

Poi ho preso l’autobus per Sravanabelagola (Belagola significa “lago bianco”, Sravana “eremita giaina”), uno dei più antichi ed importanti centri di pellegrinaggio giaina di tutta l’India. Gli alberghi sono gestiti da un’organizzazione religiosa e c’è una recepiton che smista i pellegrini nelle spartane guest house. Dapprima mi hanno fatto vedere una camera, poi, quando ho affermato che volevo cercare qualcos’altro, l’addetto ha pronunciato la classica frase: “Aspetta, forse ho qualche cosa che fa per te!”, offrendomi una stanza poco più dignitosa, alla Yatri Nivas.

A piedi nudi, sono salito per i duecento gradini intagliati nella roccia della collina Chandragiri, in cima ci sono quindici basthi (templi) in stile dravidico, costruiti attorno all’anno mille, tutti semplici, in granito e senza fronzoli. Anche all’interno sono sobri e nella cella c’è la statua di uno dei ventiquattro maestri. Nel pomeriggio invece, sono salito alla collina Vindhyagiri, un monolito che si erge nel nulla, uno sperone di roccia dal quale si domina la pianura, qui i gradini sono seicentoquaranta. Passando tra templi e cappelle votive si arriva alla cima, dove c’è la statua di Gomateshavara, conosciuto anche come Bahubali, “Il monaco in cima alla collina vestito solo di cielo”, ossia l’ignudo, il figlio dell’imperatore Vrishabhadeva, che prese il nome di Sri Adinath e divenne il primo dei Tirthankara. La scultura del 938 d.C. è un monolite di granito, ogni dodici anni si svolge la Mastabhisheka e durante la cerimonia, l’immagine del santo viene lavata con ghee (burro chiarificato), latte di cocco, spezie, yogurt, frutta e fiori.

La statua di colore bianco è alta diciassette metri e raffigura il maestro nudo, come simbolo della rinuncia ai beni terreni. Il volto del santo è rivolto a nord, con lo sguardo verso la pianura. Le gambe poggiano su un fiore di loto, le ginocchia sono tozze e accorciate in modo innaturale, i piedi poggiano su un termitaio brulicante di cobra e una pianta rampicante, si attorciglia attorno a cosce e braccia. Sotto la statua, che fa venire in mente un essere extraterrestre, i bramini raccolgono le offerte e benedicono i fedeli: che sia giainismo o induismo, la scena non cambia mai.

Mi hanno invitato a conoscere Surclev Sagargi, un guru giainista della setta Digambara, un ignudo, che si fa chiamare Maharaj. Suo padre, una specie di manager tuttofare, mi ha spiegato come dovevo presentarmi, facendo un inchino e tenendo le mani congiunte davanti al petto. Il Maharaj era nudo e si trovava seduto a gambe conserte nella classica posizione yoga, intento a scrivere un libro sui rimedi della medicina ayurvedica. Il padre mi ha parlato d’alcuni aspetti curiosi di questa religione e della vita del figlio che, agli occhi di un profano, lasciano a bocca aperta. Il Maharaj dorme quattro ore a notte su un asse di legno, mangia una sola volta il giorno dopo la preghiera e raramente abbandona la posizione yoga.

Tra le regole, c’è anche quella di non potere viaggiare nella stagione delle piogge (causa il maggiore proliferare di batteri), inoltre, ogni spostamento avviene a piedi, è proibito l’uso dell’auto e può percorrere solo un chilometro al giorno, iniziando a camminare dopo le dieci del mattino. Non si taglia i capelli, né si rade i peli della barba, ma se li strappa con le dita delle mani. Si è infervorato quando abbiamo affrontato il vegetarianesimo, asserendo che gli occidentali sono tutti assassini perché uccidono gli animali e se ne cibano, affermando che violenza porta violenza: ho obbiettato che anche gli animali si mangiano tra loro, ma ha risposto che questi non hanno cervello.

Al momento del commiato, mi hanno suggerito di donare fiori o frutta al Maharaj, ma non avendo nulla di tutto ciò, ho pensato alla bella penna che avevo nello zaino. Il dono è piaciuto e nel porgerlo, il Maharaj mi ha nuovamente benedetto, utilizzando un soffice scopino di piume di pavone, che utilizza per pulire il suolo quando cammina, per non uccidere gli esseri viventi. Dopo i saluti mi sono congedato, promettendo di assistere alla puja dell’indomani. La visita alla collina e l’incontro con il Maharaj, sono esperienze incredibili per un occidentale: attimi e momenti capaci di rendere indimenticabile la tua giornata. Ho cenato al ristorantino dell’hotel Raghu e poi sono andato a dormire.

Di buon mattino sono andato alla collina Vindhyagiri e mentre salivo, ho incontrato il Maharaj, nudo con il suo scopino, scortato dal padre manager e da una discepola vestita di bianco. Il Maharaj si è seduto ai piedi della statua di Gomateshavara, ma non ha partecipato alla funzione, sembrava passivo, però tramite l’intervento paterno, chiedeva continuamente di essere fotografato.

Un sacerdote ha preso una brocca contenente acqua profumata e salmodiando preghiere che sembravano filastrocche, bagnava i piedi della statua di Gomateshavara. Poi c’è stata la cerimonia del fuoco: l’officiante ha fatto roteare un piatto con alcune candele accese, e l’ha passato ai fedeli che hanno continuato il rito rotatorio. Dopo la cerimonia, il Maharaj è salito sul tetto del tempio, era un’area proibita, ma sono entrato perché mi hanno presentato come cugino di Sonia Gandhi!

Sulla terrazza, il Maharaj si metteva in posa come una star di Hollywood e tra una foto e l’altra, benediceva i fedeli. Infine, sono stato a casa del guru, per assistere alla cerimonia del pranzo. Dapprima si è lavato, utilizzando l’acqua calda, contenuta nelle brocche ricavate da enormi noci di cocco (il Maharaj si lava sempre così e non fa mai la doccia). Lo stesso hanno fatto un monaco anziano, uno Svetambara vestito con un dhoti bianco e la discepola. Dopo le abluzioni, il trio è entrato in cucina, io sono stato invitato a seguire il rito sull’uscio, senza entrare, per non contaminare l’ambiente. Il locale era molto grande, tre donne ed un uomo avevano preparato il pranzo: riso, chapati e vegetali in una miriade di scodelle.

Poiché il Maharaj non può nuocere a nessun essere vivente, mangia in uno strano modo: masticando in silenzio e mantenendo una posizione eretta, come quella della statua di Gomateshavara. Un adepto che si deve lavare ed indossare abiti puliti, gli passa l’acqua e il cibo, nelle mani messe a mò di coppa. Lui l’esamina con il pollice e lo porta alla bocca, sempre stando in piedi. Se trova qualche forma di vita, apre le mani e fa cadere il cibo: quel giorno non mangerà più. Il Maharaj mangiava a quattro palmenti e pensavo che essere guru non era poi così male.

Le pietanze venivano preparate e miscelate davanti al maestro, che con cenni ed occhiate indicava quale preferiva: sembrava di assistere ad un rito ancestrale, con gli adepti sempre pronti ad esaudire ogni suo desiderio. Terminato il pranzo sono tornato nella stanza delle udienze, hanno portato anche a me un po’ di cibo puro che ho ricevuto nelle mani a mò di coppa: frittelle ai peperoni, tortino di verdure e dolci di zucchero. Poi, dopo gli ultimi saluti mi sono congedato.

Nella notte, ho preso l’autobus che da Bangalore mi porterà a Kochi. A malincuore ho lasciato la città, senza nemmeno il tempo di darle un’occhiata. Era l’alba e Kochi si stava risvegliando. Volevo arrivare subito ad Harippad perché nel vicino villaggio di Payppad, oggi e domani si svolgerà la Snake Boat Race, la gara delle barche serpente. Le Vallamkali (gare di barche) sono un’attrazione del Kerala, la manifestazione più importante è la Coppa Nehru che si svolge ad Alappuzha il secondo sabato d’agosto, poi vengono quelle di Payppad e Arnamula che si tengono in occasione della festa d’Onam, verso la fine d’agosto o inizio settembre, ma la data cambia tutti gli anni, perché il giorno è fissato dal calendario lunare.

La leggenda di Onam parla di Mahabali che era un re generoso e giusto. Durante il suo regno, c'era pace e prosperità, il popolo amava il re e lui amava il suo popolo, più di se stesso. Allora i Devas (divinità del cielo) diventarono gelosi e chiesero aiuto a Vishnu per distruggere il suo regno. Vishnu assunse le sembianze di un Vamana (un bramino nano, ossia una delle sue dieci reincarnazioni) e si avvicinò a Mahabali, chiedendogli di potere avere un po’ di terra. Mahabali gli disse che poteva prendere quanta terra voleva e lui rispose, che si sarebbe accontentato della terra necessaria per coprire tre passi. Mahabali rimase meravigliato da quella richiesta così bizzarra, ma acconsentì. Vamana iniziò a camminare: col primo passo coprì il cielo, col secondo la terra intera e non rimase più spazio per il terzo passo. Il re voleva ugualmente mantenere la propria promessa, così offrì la sua testa per l'ultimo passo e Vamana la schiacciò, spingendolo giù verso il pathalam (gli inferi). Mahabali implorò di potere visitare almeno per un giorno l’anno i suoi sudditi e gli fu accordato il permesso.

 

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