Agosto 2004

Ogni volta che torno in questo Paese, provo le medesime sensazioni, perché tutto si rivela immutabile nel tempo. L’India vista in televisione o nelle fotografie di un libro sa di “colore”, ma spesso gli odori, l’accattonaggio, il camminare a piedi nudi nei templi, le lenzuola sporche degli alberghetti e il cibo che ha un retrogusto di masala dosa (una mistura di pepe, cardamomo, garofano e cannella), non la rendono facile. Il caos per le strade, la miseria, i riti atavici, provocano una “ribellione interna”, uno sconcerto, per atteggiamenti difficili da capire e accettare. E' inconcepibile per la mentalità occidentale l’arte di arrangiarsi come stile di vita, e il cercare di mantenere immutata la propria condizione sociale come se fosse una missione.

Certo, non mancano gli aspetti positivi e curiosi, come la disponibilità, talvolta eccessiva delle persone, il modo con cui ti rivolgono la parola, i melliflui “sir” e “madame” che t’inorgogliscono e che ti fanno tornare indietro nel tempo. In quale altro Paese ti fanno sentire così?

L’India è un continente che offre di tutto: montagne, mari, deserti, arte, feste e tradizioni. Il segreto per vivere al meglio il viaggio, è miscelare sapientemente i luoghi da visitare.

La prima parte del viaggio è stata entusiasmante: per i templi Hoysala di Belur e Halebid, l’incontro con il Maharaj di Sravanabelagola, i paesaggi delle backwarters e le regate delle barche serpente di Payppad. Il Tamil Nadu è stato meno vario, perché in un tempo ristretto ho visitato una moltitudine di città ricche di templi indù, troppo simili tra loro, dove tutti ti opprimono, dai bramini ai procacciatori d’affari, così si è costretti a subire senza alternative, quest’India sacra. Prima di tornare a Mumbai, mi sono dedicato alle rovine Vijayanagar di Hampi e a quelle mussulmane di Bijapur.

 

Mumbai

Sono arrivato a Mumbai prima dell’alba, assonnato e indeciso se proseguire per Bangalore in treno o in bus. Nonostante non fosse la prima esperienza in India, mi sono fatto abbindolare come un pivellino, facendomi convincere da un addetto ai servizi aeroportuali, ad andare all’agenzia di viaggio del vicino Hotel Samray. Naturalmente era solo un albergo e la portineria fungeva da agenzia. Il lenone alla recepiton mi allettava, proponendomi un bus “modello deluxe”, assicurando che era confortevole, dotato di televisione, sedili tipo aereo e soprattutto veloce. Ero combattuto e nello stesso tempo intrigato perché sarei partito subito, ero frastornato dalle tante parole e dai sorrisi dell’imbonitore, così ho deciso di accettare. Mi sono bevuto tutto di un fiato la storia che il biglietto del treno era introvabile e che la linea era interrotta per via delle piogge monsoniche, ma soprattutto, ho creduto alla storia di un viaggio di 1.200 chilometri in sole 14/16 ore. Alla fine non ho pagato solo la commissione all’agenzia fantasma, ma lo scotto per un viaggio durato 21 ore.

L’automezzo, che una volta era un “modello deluxe”,  ha iniziato a raccattare i malcapitati viaggiatori nell’enorme periferia di Mumbai. Aveva sedili larghi ma sfondati, e se il passeggero seduto davanti abbassava il sedile, si rimaneva incastrati. Il mio posto si trovava sopra la ruota posteriore e i contraccolpi erano così violenti, che collo e testa sbattevano continuamente. Come promesso, c’era la televisione ed erano trasmessi a tutto volume, film in lingua Hindi. Abbiamo percorso strade poco trafficate ma affollate da pedoni. C’era gente dappertutto, un’umanità brulicante in eterno movimento, a qualsiasi ora del giorno e della notte, a cui si univano vacche sacre e cani randagi.

 

Bangalore

Arrivato a Bangalore, mi sono fatto portare in autorickshaw (un Ape Car carenato) nel quartiere di MG Road e finalmente, mi sono concesso la prima doccia in una bella stanza dell’Hotel Empire, al n° 36 di Church Street. Bangalore non è una città attraente, ma colpiscono la quantità di parchi e giardini, su tutti Cubbon Park che ospita due edifici in stile vittoriano: l’Alta Corte e la biblioteca. C’è caos per le strade e la moltitudine di mezzi a motore sembra sempre che punti verso di te per tirarti sotto. Bangalore è chiamata la Silicon Valley dell’India, per la massiccia presenza d’aziende di software che hanno attirato numerosi investimenti stranieri. La classe media, ha raggiunto un livello di benessere superiore rispetto alla maggioranza delle città indiane: per le strade, si vedono yuppy urbani che affollano moderni internet caffè e ragazze adolescenti che abbandonano i tradizionali sari, per abiti in stile occidentale.

Lungo MG Road, si concentrano alberghi, locali alla moda e i negozi delle multinazionali dell’abbigliamento. I fast food offrono junk food e nascono i primi centri commerciali. Ogni isolato è in ristrutturazione, molti negozi segnalano l’imminente apertura: il nostro modello di “consumismo da esportazione”, sta guadagnando proseliti anche in questa società, che ho sempre ritenuto immutabile negli anni. E’ possibile mangiare da Pizza Hut, senza l’obbligo di dovere scegliere tra un thali o un masala dosa, oppure comprare un paio di comode scarpe Nike. Però quando passa quest’euforia da falso bisogno, penso con malinconia che la mentalità occidentale, si sta impadronendo del cuore dell’India, con la forza dirompente di una Durga distruttrice e sta germogliando anche qui, il seme della globalizzazione. Aree come MG Road sono ancora poche, si contano sulle dita di una mano, ma ormai la strada è tracciata: per le multinazionali, questa sarà la madre di tutte le prossime conquiste.

Dopo una visita al bazar, accerchiato da centinaia di mezzi che continuavano ad entrare ed uscire dalla vicina stazione dei bus, sono andato all’ippodromo. E’ stato curioso sentire lo speaker che parlava in inglese e vedere il pubblico che urlava ed incitava i cavalli in lingua Tamil e Kannada. Dopo più di cinquanta anni dall’indipendenza dagli inglesi, gli indiani si appassionano sempre alle corse dei cavalli ed alle partite di cricket!

Mysore

L’indomani, in autobus deluxe, ho raggiunto in tre ore Mysore. In India, la parola “deluxe” distingue tutto ciò che dovrebbe essere lussuoso, ma non sempre è così. Ad esempio, il bus deluxe è più confortevole dell’ordinary, ma lo stesso non vale per alberghi e ristoranti, spesso fatiscenti. Un portiere baffuto, vestito in modo sfarzoso, mi ha accolto all’hotel Ramanashree.

Sono andato al palazzo del maharaja, costruito nel 1912 in stile Indo Saraceno e costato all’epoca 4,2 milioni di rupie. E’ di color crema con torri fiabesche: colpisce da lontano per la maestosità, da vicino invece, perdi la visione d’insieme e percepisci un’accozzaglia di stili arabeggianti che non ti dicono granché. E’ il trionfo dell’esotico decadente di fine ottocento, è il palazzo delle favole, un miraggio da mille e una notte. E’ il sogno d’ogni bambino, nato dalla fantasia di un fumetto o di un cartone animato. Lo stupore è maggiore la domenica sera e durante la festa di Dussehra, perché vengono accese le novantasettemila lampadine che lo ricoprono, rendendolo simile ad un’attrazione da Luna Park.

L’interno è mille volte più kitsch della facciata esterna: c’è il Durbar hall, il salone delle feste, sostenuto da archi colore turchese, con il soffitto intarsiato da formelle policrome che mostrano pavoni dalle tante piume, da cui pendono lampadari di cristallo. Ogni stanza, ogni anfratto, ogni colonna, colpisce per l’azzardo dei colori, per gli intarsi ed i pavimenti a mosaico. I lampadari vengono da Murano e dalla Boemia, i mobili rococò dalla Francia, i marmi da Carrara e le porcellane da Sèvres. Molte scene della serie televisiva di Sandokan furono girate e ambientate in questo palazzo.

Tipu, il sultano dello stato indiano del Mysore che regnò dal 1782 fino alla morte, avvenuta per mano inglese nell’assedio di Seringapatam del 1799, viene ricordato in numerose leggende ed è entrato anche nella letteratura occidentale. Tipu è citato in molte novelle di Walter Scott: in duello, incontra il barone di Munchausen ed è l’ispiratore del personaggio di Sandokan, anche se Salgari, che cita più volte Mysore, lo nomina solo né "La Rivincita di Yanez". I signori di Mysore utilizzarono questo palazzo fino all’indipendenza dell’India del 1956, ma ancora oggi, come in un racconto di Salgari, può capitare di incontrare il figlio dell’ultimo maharaja, che abita ancora in un’ala del palazzo.

Poi mi sono tuffato nella città. Ogni via sembra un caotico bazar e tra pedoni, carretti, biciclette ed animali, ci si fa strada a fatica. Il mercato più colorato è il Devaraja, popolato dai venditori di frutta e verdura. Mysore è anche la città del legno di sandalo e ovunque offrono oli, creme e bastoncini d’incenso. Sono stato ubriacato dagli odori: l’olfatto è stato bombardato da una moltitudine d’essenze, da quelle al fiore di loto, all’olio di jacaranda, alla citronella. Le fragranze sono anche impiegate nella lavorazione dell’agarbathi (l’incenso): all’interno delle botteghe, donne e bambini impastano la polvere di sandalo, applicandola su sottili bastoncini di bambù che vengono seccati all’aria. Si dice che i più svelti riescano a confezionarne più di diecimila al giorno. Per ottenere un litro d’olio di sandalo invece, sono necessari seicento chili di pasta di sandalo, estratti dalla parte centrale della corteccia dell’albero. Un ragazzo mi ha avvicinato e tra una domanda su come mi chiamavo e da dove venivo, mi ha portato in un negozio d’essenze, dove mi hanno fatto un massaggio alle tempie ed alle braccia con il famoso olio.

 

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