Badami L’indomani ho preso
il treno per Badami (173 Km.), ma non c’era molta scelta: solo carrozze
Ho scelto una stanza all’hotel New Satkar e ho pranzato con gli immancabili masala dosa. Colpiscono le forme e le sculture dei templi costruiti tra il VII e il XI secolo sulle rive del lago artificiale Agastyatirtha. Tra queste costruzioni e quelle di Hampi, erette tra il XIV ed il XVI secolo ci sono centinaia d’anni di differenza, ma sotto molti aspetti, queste, sono più elaborate ed attuali. Presentano una maggiore cura nelle sculture, nella lavorazione delle colonne e nei soffitti, che si rifanno ai templi stellari visti ad Halebid e Belur. Il posto ha un fascino tutto suo: il lago artificiale è
un’enorme vasca contenente acqua color verde smeraldo, e il contrasto con le
montagne rosso ocra che lo circondano è stupefacente. Attorno ci sono templi
e fortificazioni e tra le rocce, le famose grotte rupestri (tre brahamaniche
e una giaina), scolpite nella pietra arenaria. Sono in India, ma il posto
possiede un qualche cosa di familiare. La vasca sacra è circoscritta dai
gradoni dei ghats, dove le donne lavano i vestiti. In quest’anfiteatro
di roccia, risuonano continuamente i colpi secchi dei vestiti, sbattuti
violentemente sulle pietre. È un formicaio di donne dai sari colorati che si
dannano sotto questo sole assassino, sembra che li debbano lavare fino a
distruggerli. Sudano e ci danno dentro con foga e furia animalesca, li
battono sulle pietre, li lavano col sapone e li sfregano con pietre porose:
più che un bucato sembra un rito od il compimento di una missione. Lavano
gli abiti e si lavano anch’esse, si strofinano i corpi
Dopo avere visitato le grotte all’ora del tramonto, sono andato a mangiare al ristorante Kanchana, ma il chapati ed il pollo al burro erano mediocri e per nulla invitanti. All’alba mi hanno svegliato gli altoparlanti che diffondevano le preghiere del muezzin della moschea.
Bijapur Ci sono volute quattro ore d’autobus e 140 Km. d’asfalto per raggiungere Bijapur. Contadini con il dhoti coltivano campi di girasole e granoturco: l’agricoltura è l’attività principale della regione e non ci sono fabbriche. Un uomo conduce una coppia di buoi che spingono un aratro di legno, alle spalle c’è la donna che semina. Per le strade circolano carretti trainati da ossuti cavalli, camion che trasportano uomini dai turbanti color zafferano e donne nei sari, altre indossano corpetti ricoperti da specchietti colorati e gonne ampie le une sopra le altre. Sono cariche di collane e bracciali ingombranti, alle narici e ai lobi invece, portano orecchini dorati che fanno venire in mente “piercing estremi”. E’ un mondo arcaico e senza tempo: contrariamente che a Bangalore sono convinto che nel Karnataka, troverò sempre questo scenario. L’hotel Madhuvan di Bijapur è moderno e confortevole, ma l’incuria in cui è mantenuto lo sta portando ad un rapido decadimento. Tra qualche anno, sarà un posto di “serie B”, come la maggior parte degli hotel indiani. Tutto sembra immutabile, ma questo non vale per gli alberghi, che in negativo, sono l’eccezione che conferma la regola. Bijapur è una cittadina caotica,
brulicante di gente che affolla strade e bazar. Si convive con l’insistenza
dei guidatori d’autorickshaw, l’invadenza dei bambini alla ricerca di una
penna e degli indigeni, sempre interessati nel chiedere da dove vengo e come
mi chiamo.
Il Golumbaz (cupola rotonda), ossia la tomba di Muhammad Adil Shah è il monumento più famoso della città. Non affascina, ma colpisce per grandezza e proporzioni. È un enorme cubo con quattro torri ottagonali a sette piani. La cupola, che ha un diametro interno di 38 metri è da Guinness, è la terza più larga al mondo, dopo quelle della basilica di San Pietro a Roma e della basilica di Ymossoukro in Costa d’Avorio. Dalle torri si sale fino alla cupola, contornata dalla “galleria dei sussurri” che la circonda tutta. E’ famosa per l’acustica: si afferma che i suoni qui generati, possano essere riprodotti fino a dieci volte. C’è un eco terrificante e tutti s’impegnano al massimo. Nell’avvicinarsi al Golumbaz, si sentono urla strazianti e lamenti: immagini che all’interno avvenga chissà cosa, invece sono le urla degli indiani che si divertono a riprodurre l’eco. Fischi, applausi, versi, c’è chi chiama un amico: più che in un mausoleo, sembra di stare nel “Libro della giungla”. Gli adulti si divertono come matti, i bambini invece, sono gli unici che non ridono e piangono terrorizzati. Ho pranzato con un
thali eccezionale, ricco di verdure e pani diversi tra loro. Era
un’orgia di sapori e colori che andavano dal bianco dello yogurt, al giallo
delle lenticchie, fino al rosso del peperoncino. Dalle cucine, scodelle e
vassoi erano orchestrati da solerti camerieri che passavano tra i tavoli per
riempire in continuazione i piatti. Poi sono andato in calesse al bazar,
ricco di frutta, spezie e granaglie. Mucche e maiali frugavano tra la
spazzatura, nell’aria c’era un pulviscolo fine
Alla mattina sono andato al mausoleo d’Ibrahim Roza, voluto dal sovrano Ibrahim Adil Shah II, per ospitare le sue spoglie e quelle della famiglia. Anche Ibrahim Roza come Muhammad Adil Shah, morì prima che il mausoleo fosse terminato, e moglie e figli si fecero bruciare assieme a lui. All’interno di un enorme giardino, dove gli indiani passano il tempo oziando, sorgono due edifici speculari. Uno è la moschea, l’altro il mausoleo. Entrambi sono ricchi di delicate decorazioni e la facciata riporta frasi del corano. Il posto è elegante, non dà un’idea di solidità ed enormità come il Golumbaz e si dice che i suoi minareti abbiano ispirato quelli del Taj Mahal di Agra. L’interno del mausoleo è spoglio: pietre nere per il pavimento e grigie per il soffitto, con al centro le tombe della famiglia reale. Gli indiani non hanno molto rispetto per il posto, urlano e fanno versi animaleschi nella speranza di giocare con l’eco, ma la cupola a bulbo, non ha le dimensioni di quella del Golumbaz. Nel pomeriggio sono stato alla cittadella, anche qui le
testimonianze della dominazione mussulmana sono molteplici. Poiché non ci
sono edifici integri, le rovine e le mura fortificate danno un’idea dei
tempi antichi, si percepisce la grandiosità del posto, ma nulla più. Occorre
chiudere gli occhi ed iniziare ad immaginare. Il Gagan Mahal (palazzo del
cielo), l’antica residenza
In serata ho preso il bus per Sholapur (98 km.), da qui, questa notte, salirò sul treno per Mumbai (580 km). Il treno è arrivato alla stazione di Dadar prima dell’alba. Colto alla sprovvista, a Mumbai, ho accettato la proposta di un taxista per farmi portare in centro, perché mi aveva assicurato che la corsa sarebbe stata a buon mercato. Ha messo in moto la vecchia Ambassador e ha fatto partire il tassametro, poi ha estratto una tabella, che a suo dire, mostrava una concordanza tra chilometri percorsi e rupie, sicché il costo della corsa si è quintuplicato. Ho fatto fermare il taxi e ho preso un autobus per Victoria Terminus, la stazione centrale dove ho depositato i bagagli, un edificio con cupole, torri, tetti aguzzi e pinnacoli, una via di mezzo tra un castello e una cattedrale, costruita dagli inglesi nel 1887. Mumbai La città si stava svegliando, così ho camminato per i quartieri di Colaba e del Forte, fino al Gateway of India (la porta dell’India), un arco di trionfo costruito nel 1917, per commemorare l’arrivo di re Giorgio V: questo era il primo impatto con Mumbai per chi arrivava dal mare. Ovunque mi giro, vedo palazzi che sanno di “vecchia Inghilterra”, esempi d’architettura neogotica e neoclassica coloniale, come l’università, l’alta corte e il museo del principe di Galles. Mumbai è uno strano luogo, ricco di costruzioni che ricordano la
vecchia Europa, con un’atmosfera che sa poco d’India. Se mi focalizzavo sui
particolari ”ero” in India, ma la visione d’insieme mi riportava ad un
qualche altro luogo. Erano indiani gli odori dei cibi, gli accattoni e i
procacciatori d’affari incontrati per strada, ma c’era anche un qualche cosa
di diverso. A poco a poco la città si è animata: gli uffici hanno iniziato a riempirsi, gli ambulanti ad approntare le bancarelle, i negozianti ad alzare le saracinesche ed a spazzare il marciapiede davanti all’ingresso. E’ è stato snervante camminare sotto i portici che da Victoria Terminus portavano a Colaba, infatti, appena i venditori vedevano un occidentale, si rivolgevano verso di me con frasi tipo “yes sir”, “excuse me”, “please”, “hello”. Era difficile evitare sguardi e parole: è ovvio rispondere a chi t’interpella, ma in India nulla è normale, così occorreva sforzarsi per non rispondere agli inviti, non incrociare gli sguardi e fare finta di nulla. Erano situazioni che si ripetevano centinaia di volte in una giornata, dovevi percorrere i portici a passo di carica, con gli occhi bassi e lo sguardo indifferente. Ero inseguito da un esercito d’accattoni che riconosceva all’istante che ero italiano, le più coriacee invece, erano le madri che ti chiedevano di comprare il latte in polvere per i figli, che poi restituivano al negoziante di turno, per ottenere in cambio qualche rupia. La richiesta più fantasiosa è stata quella di un individuo che mi ha fatto vedere un biglietto da cento dollari americani e poiché, non aveva spiccioli, mi ha chiesto cinque rupie, per ordinare un caffè. Di fronte ad una simile richiesta, non potevo dire di no! Mentre ero al check-in pensavo che l’India stava diventando un ricordo e come sempre, bisognava iniziare a fantasticare sul prossimo viaggio. Abbandonare l’India, non scatena nell’immediato rimpianti o nostalgie: queste compaiono quando hai assimilato l’idea che stai tornando alla civiltà occidentale, allora inizi a sentirne la mancanza, e alla fine, pensi che prima o poi ritornerai a farle visita. Gastronomia 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 | Diari Index |
|||