Poi sono stato all’ashram di Sri Aurobindo. Costui, dopo avere abbandonato la politica rivoluzionaria contro il colonialismo britannico, nel 1926 creò il suo ashram, ritirandosi in isolamento, per proseguire il proprio lavoro spirituale. Lasciò la responsabilità e la cura dell’ashram a Mirra, una donna francese che prese il nome di “Madre”, che in Aurobindo, riconobbe il maestro che occultamente l’aveva guidata nel suo sviluppo spirituale. “Tutte le mie realizzazioni sarebbero rimaste, per così dire, teoriche - diceva Sri Aurobindo - se la Madre non avesse indicato il modo di dar loro una forma pratica”. La Madre lavorò con Sri Aurobindo, anche all’elaborazione della dottrina filosofica della “Supermente”, che si fonda sullo yoga e sulla scienza moderna. "L’uomo" diceva Sri Aurobindo, “è un essere di transizione. L’evoluzione continua ed egli sarà superato”. I due scopriranno all’interno del corpo una “mente delle cellule” e, oltre la “mortale memoria genetica” in cui si cela il “nodo della vita con la morte”, una “mente solare e immortale”, capace di aprire la strada ad un altro essere dopo l’uomo.

L’ashram si trova all’interno di una bella costruzione bianca in stile coloniale. Entrare qui, non mi ha suscitato particolari emozioni, al contrario dei molti visitatori indiani ed occidentali che sembrano in trance. Occorre seguire un percorso che porta alla samadhi, la tomba di Sri Aurobindo e della Madre. E’ un enorme rettangolo di marmo tappezzato di fiori colorati, e nell’aria predomina l’odore del gelsomino. La calma è irreale, sembra che non voli nemmeno una mosca, molti s’inginocchiano e pregano con la testa china sul marmo della tomba, altri, seduti nella posizione del fiore di loto, meditano ad occhi chiusi, fissando il vuoto. Sono scettico ed osservo senza capire: per questo modo di pregare, nel vedere i seguaci e gli addetti all’ashram vestiti in modo lindo e impeccabile, con una cura meticolosa per il loro portamento, in un Paese dove pochi curano il proprio aspetto.

Anche il posto sembra asettico e ti fa dimenticare di stare in India. Non si possono scattare foto, ma nel negozio dell’ashram vendono libri e ritratti dei due fondatori. Sono ritratti nelle pose più disparate: molte foto ritraggono gli occhi magnetici d’Aurobindo e i piedi. Aurobindo possiede molto del capo carismatico, la Madre invece, sembra più vanitosa, si compiace nell’essere fotografata e in molti scatti ricorda una diva degli anni venti, stile Marlene Dietrich.

Alla sera, la chiesa dell’Immacolata Concezione era uno sfavillio di luci colorate, come i sari delle donne che pregavano: più che in India sembrava di stare in Sud America. Ho cenato sulla terrazza del Bambolo Hut, con piatti a base di pesce e birra Kingfisher, poi sono tornato alla guest house in modo rocambolesco. Il biglietto da visita che ho mostrato al guidatore dell’autorickshaw, riportava l’indirizzo di un piccolo albergo che non era il mio! Purtroppo non sapevo ritrovarlo, perché il posto non era centrale e le strade erano buie. Ero stizzito, pensavo che come al solito, il guidatore non sapeva portarmi a destinazione, poi, dopo lunghe discussioni, si è scoperto l’arcano. Stamattina, un addetto della guest house dove ero andato a chiedere alloggio, mi aveva indirizzato da un altro affittacamere. Qui, la tenutaria mi aveva dato un biglietto da visita che era del posto visitato in precedenza.

Quando nel cuore della notte, ho bussato alla vera guest house per chiedere informazioni, ho trovato il ragazzo di stamattina. All’inizio ha fatto finta di non capire, poi dopo diversi conciliaboli, degni di una commedia di De Filippo, è salito sull’autorickshaw e mi ha portato nel posto giusto. Ero furibondo, ma la tenutaria di fronte alle mie rimostranze non ha battuto ciglio. Una storia simile è capitata la mattina successiva, ieri avevano assicurato che la colazione era compresa nel prezzo della stanza, oggi invece era un extra. Di primo impeto, è uno di quei momenti, in cui vorresti essere uno Shiva distruttore, per infliggere punizioni divine agli indiani!

 

Mamallapuram

Oggi, il viaggio prosegue verso Mamallapuram (88 km.), cittadina famosa per il “tempio della spiaggia” dedicato a Shiva, edificato dai Pallava nel VII secolo, l’unico superstite di sette templi erosi dalle acque dell’oceano. Per dormire, ho scelto l’hotel Surya, una scalcinata guest house gestita da uno strano tipo, un albergatore scultore, che passava il tempo alla reception, mentre i suoi aiutanti lavoravano alacremente nell’intagliare statue.

A Mamallapuram gli artigiani sono specializzati nel lavorare la pietra e ovunque, osservi uomini armati di martelli, scalpelli e pialle che danno forma a statue d’ogni grandezza. Lavorano tutti: dagli adolescenti agli uomini maturi, li riconosci perché sono sporchi di polvere bianca e ricordano i panettieri. Ognuno ha un compito ben preciso: c’è chi taglia i grossi blocchi di pietra grezza, chi maneggia pialle elettriche per abbozzare  i lineamenti per i futuri Dei del panteon indù, chi fa gli ultimi ritocchi. Altri, costruiscono gli strumenti di lavoro: scaldano in un crogiolo le punte degli scalpelli, e le estraggono quando un’estremità è incandescente, così modellano un’acuminata punta, che servirà per scalfire la pietra. Tutte le botteghe propongono queste creazioni e artisti e venditori, cercano di invogliarti all’acquisto. Il materiale preferito è il granito, seguito dalla steatite: per chi non apprezza il genere, è sempre possibile consolarsi con la mercanzia dei commercianti Kashmiri!

Sono andato al “tempio della spiaggia”, in granito, con due torri aguzze (shikhara). Non l’ho trovato particolarmente affascinante, se non per il fatto che si trova a ridosso del mare. L’erosione del vento, gli spruzzi dell’oceano e le piogge l’hanno seriamente danneggiato, qui la pietra è quasi slavata, e poi il biglietto d’entrata è iniquo: dieci rupie per gli indiani e dieci dollari per gli stranieri. E’ bello guardare i contrasti tra i vari colori: le pietre scure del tempio, il blu del mare ed il colore chiaro della lunghissima spiaggia, che non sembra mai finire. Tutto attorno risuona un rumore, un “toc toc”, che fa venire in mente il cantiere per la costruzione di una cattedrale gotica.

Ai piedi della collina che domina Mamallapuram, si trova un gran bassorilievo in pietra chiamato “la discesa del Gange” (27 x 7 metri), una scultura incompiuta con decine di personaggi, dove asceti ed animali selvaggi si mescolano a creature celesti. Rappresenta il sovrano di Ayudhya che supplica Shiva, affinché faccia scendere sulla terra il fiume Gange. Tutta la collina è ricca di mandapa, grotte rupestri e cinque templi scolpiti in altrettanti monoliti di granito rosa, chiamati ratha, perché nella forma, ricordano i carri processionali, che si rifanno all’immagine dei primi santuari in legno. Stasera ho mangiato pesce e bevuto birra in riva all’oceano, poi sono tornato alla guest house dello scultore.

Anna Rita si è svegliata dopo avere sognato panini caldi al prosciutto, così, nel raccontarmelo, mi ha fatto venire una fame tremenda. Dopo un’ultima passeggiata sulla spiaggia, ho preso il bus per Kanchipuram (66 km.), una delle sette città sacre dell’India. Tutte le altre si trovano nel nord del Paese (Ayodhya, Haridwar, Varanasi, Mathura, Ujjain e Dwarka), e sono dedicate ad un solo Dio, mentre Kanchi, com’è qui chiamata Kanchipuram, è dedicata a Shiva e Vishnu. La credenza indiana, associa l’origine della vita con i cinque elementi della creazione, cosicché Shiva, viene adorato anche sotto forma di lingam. Il Prithvi-lingam di sabbia e coperto di metallo del tempio Sri Ekambaranathar di Kanchipuram rappresenta la terra, l’Akash-lingam del tempio di Shiva Nataraja di Chidambaram lo spazio, l’Appu-lingam del tempio Sri Jambukeshwara di Trichy l’acqua, l’Agni-lingam del tempio Arunachaleswar di Tiruvannamalai il fuoco e il Vayu-lingam del tempio Sri Kalahasti di Tirupati l’aria.

 

Kanchipuram

Dei mille templi originari, costruiti a Kanchipuram sotto la dinastia Pallava, ne rimangono meno di duecento: il più bello è il più antico è il Kalisanatha, dedicato a Shiva “Signore del monte Kailash”, la dimora degli Dei. Mi ha fatto da guida un bramino, la cui famiglia lavora come “guardiana del tempio” da diverse generazioni, mostrandomi gli ambienti bui e il lingam prismatico della cella, antico di più di duemila anni. Il luogo dimostra l’età, ma la pietra arenaria affascina: molte sculture sembrano vive e fanno sognare. La porta centrale e il gopura a forma di piramide sono stati coperti di stucco sotto la dominazione inglese, così possiedono un colore bianco accecante che male contrasta, con il rosa ed il marrone della pietra arenaria.

Ben diversa è stata la visita al tempio Sri Ekambaranathar dedicato a Shiva, un tipico esempio di tempio fortezza con torri-porta e alte mura di cinta, iniziato a costruire sotto i Pallava e terminato dai Chola e dai Vijayanagar. Appena ho tolto le scarpe, sono stato assalito da un gruppo di donne che mi hanno costretto a partecipare ad un rito propiziatorio: il fine di questa puja era quello di arrecare felicità e benessere a me e ai miei cari. Una donna ha iniziato a salmodiare in modo cantilenante e ogni volta che chiedeva il nome di uno dei membri della famiglia (padre, madre…), metteva una manciata di chicchi di riso soffiato sotto una statua di Ganesh. Il rito è terminato strappando un fiore e lanciandolo in aria. Ad Anna Rita invece, è toccato un rito bene augurante per avere un figlio: la “sacerdotessa” continuava a toccarle la pancia. Appena ci siamo svincolati dalle erinni, si è materializzata una guida abusiva che ha continuato a seguirci, dicendo che non voleva essere pagata e che faceva questo lavoro per pura passione, definendosi anche lei un “custode del tempio”. Ovunque c’erano cartelli che indicavano di prestare attenzione alle false guide, così quando ce ne siamo liberati, gli abbiamo regalato due penne, un gadget sempre apprezzato in India.

Fino a poco tempo fa, al centro del tempio, c’era un albero di mango carico di frutti e d’anni (c’è chi dice che erano più di tremilacinquecento). I rami posti in corrispondenza dei quattro punti cardinali, rappresentavano i quattro Veda e si narrava che anche i frutti avessero quattro sapori diversi. Oggi rimane solo il tronco secco, e accanto ne cresce uno nuovo. Si crede che l’albero sia una manifestazione di Dio e che qui si siano sposati Patvati e Shiva, cosicché vengono a sposarsi numerose coppie e a pregare le donne che desiderano avere un figlio.

Ho cenato al ristorante Saravana Bhavan dell’hotel Jayabala International, sembra uno sciogli lingua, ma vale la pena venire qui: su tutto, il riso agli anacardi e i funghi al curry. Anche la stanza dell’Heritage Inn è bella e pulita.

 

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