Queste montagne furono il principale problema per gli Usa, infatti, quando i VietcongVietnamDiario_45.jpg conquistarono le colline circostanti, la base diventò un facile bersaglio e fu un gioco da ragazzi abbattere aerei ed elicotteri. I Marines arrivarono a Khe Sanh verso la fine del 1966 e a partire dell’anno successivo iniziarono scontri sempre più duri, soprattutto attorno alle colline “881 sud” e “881 nord”. Il comandante delle forze americane in Vietnam Westmoreland e il presidente Johnson decisero che Khe Sanh doveva essere difesa a tutti i costi e che non sarebbe dovuta diventare un’altra Dien Bien Phu. Così arrivarono i rinforzi: seimila uomini e cinquemila mezzi tra elicotteri ed aerei. Durante l’offensiva del Tet, a partire dal 21 gennaio 1968, per settantacinque giorni, si svolse la battaglia più cruenta della guerra. Furono sganciate centomila tonnellate d’esplosivo e morirono cinquecento Marines e diecimila, tra civili e soldati del nord.

Nel pomeriggio siamo andati a vedere il ponte Hien Luong sul fiume Ben Hai, qui passava la “Strada n° 1”, la più importante che attraversava il Paese e rappresentava la linea di confine tra i due Vietnam divisi dalla DMZ. L’ultima sosta è stata ai tunnel di Vinh Moc situati a ventotto chilometri a nord dalla DMZ. La popolazione e i Vietcong costruirono in tredici mesi tre chilometri di tunnel con cunicoli sotterranei, usati come rifugio per sopravvivere ai bombardamenti. I tunnel hanno tre livelli di profondità (12, 15 e 23 metri) e dodici entrate, da cui si accede dalla spiaggia e da botole mimetizzate con foglie. Tra il 1966 ed il 1971 ospitarono fino a trecento Vietcong, sessantadue famiglie e nacquero diciassette bambini. I tunnel, servivano anche a nascondere il materiale bellico che di notte era trasportato sull’isola di Con Co. Nonostante i bombardamenti aVietnamDiario_46.jpg tappeto, questi tunnel non furono mai colpiti, invece altri, come quelli di Vinh Quang, crollarono sotto le bombe.

La giornata è stata superiore alle attese: non ho visitato fortificazioni o resti tangibili dei campi base, ma grazie all’immaginazione, ai libri consultati, alle mappe topografiche e alle cartoline d’epoca, la visita alla DMZ è stata appassionante. Anche stasera sono stato a cena del Dr. Trau Vui e poi all’isola di Hen, dove mi ha fatto assaggiare una specialità di Hue: granatina dolce con granoturco. Mentre camminavo verso l’albergo, ero continuamente avvicinato dai guidatori di cyclo – pousse che sottovoce mi proponevano “massage, girl, bum bum”.

Mi sono svegliato presto grazie alla luce che entrava dalle finestre, anche qui, come in tutto il sud est asiatico non esistono tapparelle e le tende sono trasparenti. Con la moto ho costeggiato uno dei tanti canali della città fino ad un’ansa del Fiume dei Profumi dove erano ormeggiate alcune chiatte. Ero davanti ad un girone dantesco con uomini, donne e bambini impegnati a scaricare sabbia e pietre. Sotto il peso dei bilancieri in bamboo, gli operai camminavano con un passo sciancato che faceva venire in mente quello dei marciatori. Era una processione continua che terminava quando la chiatta era vuota per poi passare alla successiva. Il materiale era ammucchiato in cumuli di sabbia e sassi, qui altri uomini, con badili lo caricavano sui camion. Nel guardare la scena grondavo di sudore, era un’immagine arcaica che contrastava con i bus carichi di turisti che vedevo passare sull’altra sponda del fiume. Continuando, ho incontrato strade contornate da alberi di bamboo che si piegavano ad arco e formavano tunnel verdi, sentieri che portavano ad abitazioni, templi abbandonati, campi ed orti: una scoperta più affascinante di quella delle tombe degli imperatori Nguyen. Ho fatto uno spuntino con una baguette ripiena di ravioli trasparenti, gamberetti, salse gialle, erbe e peperoncino.

Hue ha il primato nella costruzione dei non bai tho, i cappelli conici, così sono passato per i quartieri di Phuoc Vinh e Vinh Loi. Si dice che a quest’attività, antica di oltre quattro secoli, lavorino più di settecento famiglie. Ogni persona fabbrica dai tre ai quattro cappelli il giorno. Seguendo il canaleVietnamDiario_47.jpg Dong Ba sono andato verso il distretto di Phu Hiep: i pescatori lanciavano per aria le reti che prima di cadere in acqua si aprivano a ventaglio. I bambini uscivano dalle scuole, le ragazze delle superiori, indossavano il tipico Ao – dai, una lunga veste con pantaloni, aperta sulla vita. E’ di colore bianco e rende eleganti e slanciate le donne che lo indossano, facendole sembrare più alte e snelle. Se pedalano, il vento fa svolazzare maliziosamente l’abito, se camminano, gli spacchi fanno intravedere i fianchi. Il colore dell’Ao – dai indica l’età e lo stato sociale: per le giovani e le studentesse è bianco e simbolizza la purezza. Prima di sposarsi s’indossano colori pastello, dopo il matrimonio colori forti.

Mi sono fermato al mercato di Dong Ba che si tiene in un gran capannone: c’è un odore pungente da mescolanza di prodotti che sotto il sole del mezzogiorno ti stordisce, poi ho preso il minibus diretto a Hoi An (centoquaranta chilometri). Si percorre la “Strada n° 1”, che è tutta dritta e si costeggia il mare della Cina meridionale. Il traffico scarseggia, non c’è nessuna macchina, solo bus di linea e camion che trasportano sabbia. A trenta chilometri da Da Nang siamo transitati per i tornanti aguzzi del passo Hai Van (Oceano di nubi), fa parte della catena montuosa Truong Son e si raggiunge un’altitudine di 496 metri: in inverno il passo divide climaticamente nord e sud. Nel quindicesimo secolo, segnava il confine tra il Vietnam ed il regno di Champa e durante la guerra con gli USA, il vecchio forte francese era utilizzato come bunker dall’esercito del sud. Si sale a passo d’uomo, spesso ci si ferma e si rallenta per i lavori in corso e l’aiutante dell’autista deve scendere per mettere grandi cunei di legno sotto le ruote del minibus. Questo è il momento atteso dai venditori che assalgono gli automezzi con i cestini da viaggio contenenti generi di conforto. In prossimità della cima si viaggia a senso alternato e ci si distrae volentieri a guardare in lontananza il mare, le spiagge deserte e le colline ricoperte da una fitta giungla d’alberi di bamboo, eucalipti e frangipani.

Hoi An

In quattro ore sono arrivato a Hoi An e ho preso una stanza all’Hotel Vinh Hung 2, in Nhi Trung Street. In città, i conducenti dei bus avevano una fretta terribile e cercavano di esorcizzare il traffico aVietnamDiario_48.jpg colpi di clacson, facendo slalom da brivido tra gli incolpevoli ciclisti e motociclisti. All’imbrunire, in molte piazze o sui marciapiedi si sono materializzati dal nulla, piccoli ristorantini frequentati dai vietnamiti. Quelli per i turisti invece, sono ricavati all’interno d’antiche abitazioni e ogni aspetto, dall’arredamento all’illuminazione, è curato con gusto. Tutti possiedono un tocco che li personalizza e li rende caldi ed accoglienti. Ho mangiato una baguette e ho bevuto una Bia Hoi, poi sono andato a dormire.

L’indomani ho noleggiato una moto e per colazione mi sono fermato in un ristorantino dove cuoceva un grosso maiale allo spiedo. C’era un gruppo di guidatori di cyclo – pousse, euforici perché era domenica e non si lavorava. Più che mangiare bevevano, continuando a riempire i bicchieri, piccoli come ditali, con grappa di riso. Ho respinto i numerosi inviti ad unirmi a loro, limitandomi alla birra Halida, imbottigliata a Hue con tecnologia danese, così recitava l’etichetta. Mi hanno raccontato che passavano la mattina dei giorni di festa a bere, mentre il pomeriggio crollavano sotto l’effetto dell’alcool. La domenica vietnamita mi faceva venire in mente i nostri anni cinquanta, dove Domenica voleva dire fare una passeggiata, mangiare un gelato e andare al bar con gli amici.

Hoi An, l’antica Faifo, fu un fiorente porto dal XVII al XIX secolo. Gli abili commercianti cinesi e giapponesi crearono un quartiere all’interno della città, poi arrivarono gli europei alla ricerca di seta, porcellana, pepe, madreperla e lacca. C’è il famoso ponte coperto, costruito nel 1593 che collega il quartiere giapponese con quello cinese e numerose tombe di mercanti stranieri. In città si riunivano le corporazioni dei cinesi, dei cantonesi, delle comunità del Fujian, di Hainan e Chaozhou. Le sale dove si riunivano (hoi quan), consentivano ad ogni gruppo di conservare le proprie tradizioni ed erano un punto di ritrovo per gli affari. Nelle tre strade principali ci sono circa seicento residenze storiche: visitarne almeno una è un obbligo. Gli esterni sono in mattoni, gli interni sono ricchi di porte e paraventi intagliati, mobili in ebano, stucchi e soffitti a guscio di granchio e i tetti con tegole concave e convesse yin e yang. Ultimi per descrizione, ma non per importanza, i luoghi di preghiera: pagode, chiese e cappelle familiari. Tutta l’architettura della città risente di molteplici influenze, con aspetti che ricordano il vecchio continente e l’estremo oriente.VietnamDiario_49.jpg

Hoi An è anche famosa per l’abilità delle sartorie, dove in poco tempo si confezionano vestiti su misura: donne di tutte le età ti fermano per strada e t’invitano a visitare gli atelier. Al mercato mi sono fatto fare due paia di pantaloni, ma tutta la cittadina è un grande bazar che invoglia all’acquisto. Ho camminato per gli argini delle risaie, guardando i contadini che trebbiano il grano e che pescano nei canali, poi ho cenato in un ristorantino con lumache cotte in un sugo al peperoncino e ginger: un accostamento da mozzare il fiato. Pochi vietnamiti bevono Bia Hoi, i più pasteggiano con un liquore di riso servito in grandi caraffe.

My Son

L’indomani andrò a My Son, l’antica capitale del regno dei Champa che si trova in una valle verde ed isolata, a sessanta chilometri da Da Nang. I Cham s’insediarono nella regione tra il II ed il XII secolo e nel IV secolo My Son subì l’influenza artistica indiana, come le città d’Angkor in Cambogia, Bagan in Birmania, Ayuthaya in Thailandia e Borobudur a Java. I Cham erano un popolo d’agricoltori e pirati che attaccavano le navi nel mar cinese e abili combattenti, sempre in guerra con i Khmer e i vietnamiti, fino a quando furono assoggettati da quest’ultimi nel XVII secolo. Erano anche noti per i loro santuari: le torri (khan), costruite in mattoni cotti tenuti insieme da resina. L’architettura delle torri era semplice: un ingresso rivolto ad ovest sormontato da un portico ornato con sculture elaborate, un tetto di forma piramidale e una cella rettangolare centrale con alte pareti. My Son era la capitale religiosa, mentre Simhapura era quella politica. Contava più di settanta templi costruiti tra il IV ed il XIII secolo, ora ne rimangono meno di venti.

Durante la guerraVietnamDiario_50.jpg con gli USA, i Vietcong si rifugiarono tra queste rovine: come risposta gli americani bombardarono il sito archeologico e così, la maggior parte delle torri, rimaste in piedi per oltre un millennio, fu ridotta in polvere. Mi sono incamminato verso le rovine: c’è un caldo insopportabile, i vestiti sono bagnati e mi sento pizzicare. La strada non è asfaltata e tento di galleggiare nella fanghiglia, ogni tanto le turiste giapponesi lanciano un urlo, è il segnale della perdita di una scarpa nel magma fangoso. Attorno ai templi (classificati in sei gruppi, contraddistinti con lettere che vanno dalla A alla K) la pioggia cade forte e le montagne sono ammantate dalle nubi.

Non sono le condizioni ideali per una visita, ma la nebbia bassa e la pioggia che rende lucente il fogliame aggiungono un alone misterioso al posto. Il terreno è tappezzato da colonne, capitelli a forma di fiore di loto, lingam, parti di antichi fregi triturati dal logorio dei secoli e dalle intemperie. Si cammina tra torri dedicate ai re Cham, a Shiva e statue senza testa scolpite nella pietra arenaria. La sensazione è di vedere un’accozzaglia di detriti e torri mozze che si reggono in piedi a fatica. Questo è quello che si prova al primo impatto, ma quando l’occhio si abitua a questo paesaggio di rossi e verdi, si aprono nuove prospettive e il singolo capitello e la singola scultura sono ammirati nella loro unicità e non come parte del sito archeologico.

 

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