Ha Long Bay

La mattina successiva sono andato al Kangaroo Café, da qui partirà l’escursione di tre giorni per la baia di Ha Long. Davanti ad un the ghiacciato guardo i miei futuri compagni di viaggio che arrivano alla spicciolata. Il viaggio di centosessanta chilometri verso la città di Haipong è durato tre ore, per spezzarlo, ci siamo fermati ad una stazione di sosta dove si vendevano souvenir. In una gran stanza male illuminata, c’erano una cinquantina di ragazzine che ricamavano.

La loro età andava dai dieci ai vent’anni, erano piccole, minute e con gli occhiVietnamDiario_27.jpg tristi incollati al telaio. Stavano davanti ad un grande panno bianco, sul quale era tratteggiato il paesaggio da ricamare. Per comporlo, utilizzavano una cartolina che faceva da cartamodello e con ago e filo di seta lo riproducevano fedelmente. Tra me e me pensavo che se nessuno comprasse le loro creazioni, forse non farebbero un lavoro così frustrante, ma se mi fossero piaciute, magari avrei acquistato qualcosa. Un uomo che lavorava lì, mi ha chiesto da dove venivo e quando ha saputo che ero italiano, mi ha indicato un quadro dove era rappresentata la raccolta del riso, impilato in grandi fascine. Mi ha domandato se conoscevo la parola fascio e in un inglese zoppicante, mi ha spiegato che a scuola gli avevano parlato di Mussolini e della nascita del partito fascista.

Mi ha detto che le ragazzine erano orfane, alcune avevano degli handicap, erano mute o con problemi agli arti. In questa provincia era stato realizzato un progetto in collaborazione con la Croce Rossa Internazionale ed il ricavato della vendita dei quadri andava a loro, così mi ha invitato ad acquistarne uno. Ero diffidente perché mi sembrava strano che la Croce Rossa permettesse che le bambine lavorassero in un posto così disagiato e non credevo nemmeno alla storia delle orfane, infatti, la guerra con gli U.S.A. era terminata da trent’anni. Pensavo però che vedere bambine lavoratrici, allarga sempre il cuore. Sul bus mi venivano in mente le loro facce tristi, poi questi sensi di colpa e da anti vacanza si sono dileguati.

All’ora di pranzo, davanti ad un piatto di noodles ho conosciuto i membri del gruppo, poi ci siamo imbarcati su un sampan in legno con la tipica vela triangolare. C’è un vento forte che non fa sentire il calore del sole, in lontananza, siVietnamDiario_28.jpg vedono gli isolotti che fanno venire in mente i paesaggi della regione cinese di Guillin o di Krabi in Thailandia. La Baia di Ha Long è formata da più di tremila isole d’origine calcarea, si trova nel golfo del Tonchino e copre un’area di circa millecinquecento chilometri quadrati. “Ha Long” significa “drago che scende nel mare”, in ricordo di una leggenda che narra del movimento di una coda di drago che cadendo in mare fece a pezzi le cime delle montagne, formando così grotte e insenature.

Il sampan si è fermato alle grotte di Bai Chai, abbiamo camminato tra stalattiti e stalagmiti, poi ci siamo tuffati in mare. Tre ragazzi irlandesi ci hanno contaminato con la loro allegria e tra lazzi e scherzi è iniziato un festival di tuffi che ha avuto il suo apice, nel cercare di scambiare in volo un pallone da rugby prima di finire in acqua. Dopo il bagno ci siamo messi a scolare le birre della cambusa e le lattine di Tiger e Halida si sono vaporizzate in un battibaleno. Così, grazie alla bevanda al luppolo si era rotto il ghiaccio e si è istaurata un’atmosfera goliardica e cameratesca. Per la notte ci siamo fermati in una laguna contornata da piccole isole: sembrava di stare al centro di un lago circondato da colline dalle strane forme.

Il tramonto colore dell’oro e le meraviglie della notte mi hanno lasciato a bocca aperta. Le stelle luccicavano e la via lattea sembrava un’autostrada di luce. Non c’era la luna, ma le stelle erano così brillanti da illuminare il paesaggio e ricordavano le notti invernali. Ogni volta che ci si tuffava, accadeva uno strano fenomeno: grazie al fosforo contenuto nell’acqua si aprivano degli squarci di luce, poi a poco a poco tornava il buio. Inebetito per le tante birre sono riuscito aVietnamDiario_29.jpg trovare la strada della cabina, senza riuscire a sottrarmi ad un’esibizione canora davanti al popolo della nave.

Alla mattina mi sono alzato di malavoglia, la cabina era calda e umida e per trovare un po’ di fresco sono salito sopra coperta. Sul ponte erano evidenti i segni della notte brava: scarpe, ciabatte, lattine di birra e pacchetti di sigarette erano disseminati ovunque. Oggi arriveremo a Cat Ba, l’isola più grande dell’arcipelago, fa parte del parco nazionale e non è per niente selvaggia. Anche qui è arrivata la civiltà, con ristorantini, alberghetti e internet cafè, tutto è artigianale e predomina il fai da te. La baia davanti a Cat Ba è occupata da un villaggio su palafitte e da case galleggianti. Gli abitanti non se la passano male, qualcuno ha la TV e nel ristretto atrio non è raro vedere un cane.

Siamo stati a Dong Thien Long per visitare una grotta ricca di stalattiti e stalagmiti. Per gioco, abbiamo iniziato ad utilizzare le concrezioni calcaree come se fossero tamburi tribali. Producevano suoni diversissimi tra loro: si sentivano dei bong, tic, stong e tak. Davanti all’imbarcadero i venditori di frutta e bibite hanno organizzato un mercatino. Quando arrivi, iniziano a sbracciarsi e a lanciare urla e richiami per vendere qualche cosa. Come a Hà Nôi, la gente cerca di arrangiarsi e molti negozi sono ricavati nei garage: quest’imprenditorialità primitiva, questa voglia di emergere e di fare business mi colpisce sempre. Bastano una televisione, un video registratore e due file di sedie per improvvisare un cinema, invece all’esterno della farmacia c’era un cartello con scritto “Banca: si cambiano dollari”. Spesso manca anche la corrente, alcuni negozi hanno il generatore, negli altri si conversaVietnamDiario_30.jpg al buio, nell’attesa che torni.

Nel pomeriggio siamo andati all’isola delle scimmie e quando il caldo ha iniziato a diminuire, gli animali sono usciti dalla foresta. Prima si sono avvicinati ai rifiuti per sgranocchiare riso e bucce di frutta, poi si sono impossessati di un rotolo di carta igienica, mordicchiandolo e contendendoselo con furore. Le spiagge dell’isola sono di sabbia finissima e la più bella è formata dalla polvere dei coralli bianchi frantumati. Ti sembra strano non vedere le isole staccate le une dalle altre, le vedi unite, è un pò come avere davanti delle catene collinari e se non ti dicessero che sono isole, non riusciresti a capirlo.

La mattina successiva abbiamo ripreso il sampan che ci riporterà a Haipong, oggi ho la sensazione che le isole siano centinaia ed ho davanti agli occhi la baia che m’immaginavo. Alcune isole sono verdissime, con rocce calcaree a strapiombo sul mare e da tutte proviene un rumore assordante: il frinire delle cicale. Ci siamo fermati in una baia a fare il bagno, l’acqua è calda e immobile. I francesi hanno detto “C’est un soupe”, gli spagnoli per non essere da meno, hanno replicato “Es una sopa”. Golfi e lagune sono percorsi da piccole barche da pesca e da grandi sampan di legno scuro, simili a vascelli spagnoli. Il nostro capitano canta una nenia triste, i compagni di viaggio dormono o prendono il sole e nell’aria c’è un sentore da ultimo giorno di scuola. A Haipong abbiamo preso un minibus verso Hà Nôi: alla periferia della città è iniziato il caos, con i soliti ingorghi causati dai motocicli e dalle rare macchine.

Lao Cai

Dopo avere salutato i membri del gruppo, mi sono fatto portare alla “B Train Station”, da dove partono i treni perVietnamDiario31.jpg Lao Cai. La stazione è inospitale e gli altoparlanti gracchianti urlano informazioni in vietnamita. Il treno è un vecchio modello e al posto dei finestrini ci sono grate: sembra di essere in prigione. La cuccetta è spartana e i passeggeri della classe “sedili duri” non se la passano bene, faranno il viaggio seduti su panche di legno, tra cesti di frutta e gabbie con polli. Lao Cai dista trecentoquaranta chilometri da Hà Nôi e tre dal confine cinese. La zona è nota per le tribù di montagna, la maggior parte degli stranieri si dirige a Sapa (trentotto chilometri da Lao Cai e famosa per il mercato del sabato), io andrò a Bac Ha (sessantatrè chilometri da Lao Cai con mercato domenicale), un luogo meno frequentato.

Alla mattina mi hanno risvegliato la luce che entrava dal finestrino e il ciabattare dei ragazzini, che tentavano di vendere una tazza di caffè o di the. Il bus per Bac Ha partirà a mezzogiorno e sono andato al confine con la Cina. La frontiera è oltre il ponte sul Fiume Rosso e si vedono i casinò della città di Hekou. C’è un gran brulicare di persone che trasportano le merci su carretti, biciclette e cyclo. Per le vie di Lao Cai ci sono cartelli in vietnamita ed in cinese e ogni via è specializzata nell’offrire determinate merci o attività. Al mercato la mia attenzione è stata attratta dalle larve commestibili, dalla frutta e da strani ortaggi. Ho mangiato dim sum e ho bevuto una spremuta ricavata dai chicchi di granoturco. Lao Cai mi piace, non è nulla di speciale, ma si passa volentieri il tempo a guardare la vita di strada. In molti negozi le TV sono sintonizzate sulle telenovele: fanno compagnia e sono una presenza rassicurante, come un amico o un fratello maggiore. Mentre camminoVietnamDiario32.jpg, molti mi rivolgono un “Hello” e mi sorridono compiaciuti, i più intrepidi invece, mi chiedono qual’è il mio nome o da dove vengo.

Nell’attesa del bus ho bevuto una bia hoi venduta nelle bottiglie di plastica da un litro della Coca Cola, accompagnandola con ban cun (ravioli ripieni di carne di maiale e funghi) e uova sode di quaglia, il sole picchia forte e si sta bene all’ombra del ventilatore a pale. Il bus è partito puntuale, il pavimento è formato da assi di legno e i sacchi e le valige sono ammassati ovunque, c’è un silenzio irreale e tutti mi guardano con circospezione. Gli occupanti del bus sono di etnie diverse: alcuni hanno i tipici tratti vietnamiti, altri assomigliano ad indiani d’america e a cinesi. In un angolo alcune donne della tribù H’mong hanno abiti appariscenti: gran parte del vestito è ricamato con strisce oblique colorate e strette, indossano un foulard, grandi orecchini e collane d’argento che ricordano i collari per cani.

 

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