Sono poi andato alla tomba di Ho Chi Minh, è un imponente edificioVietnamDiario_15.jpg in marmo e granito, un mausoleo a forma di cubo, come quelli di Mao, Lenin e Ataturk, che sorge in un’enorme piazza, dove sventolano le bandiere con la stella dorata e la falce e il martello. Ogni anno il corpo torna in Russia per l’annuale restauro e il mausoleo rimane chiuso da ottobre a dicembre. Lo “Zio Ho” non voleva essere mummificato e dispose invano che le sue ceneri venissero sparse al vento. Sulla piazza mi sono trovato di fronte una scena inaspettata, con centinaia di persone in attesa di visitare le spoglie del Padre del Vietnam. La fila era lunga più di cinquecento metri e le guardie d’onore vestite di bianco regolavano il traffico pedonale. Essendo straniero ho fatto una fila ridotta e a mano a mano che ci si avvicinava all’entrata i Vietnamiti cercavano di darsi un contegno: c’era chi si pettinava e chi si sistemava il vestito.

Esiste un regolamento sul comportamento da osservare durante la visita e tra le tante regole c’è anche quella di non tenere le mani in tasca. Più si andava avanti, più aumentavano le guardie che tentavano di mantenere l’ordine. La stanza di Ho Chi Minh era buia ed il corpo imbalsamato era conservato sotto una pesante teca di cristallo. Il viso sembrava di cera, le mani e il petto erano illuminati da una luce arancione e le guardie non permettevano né di sostare davanti al corpo né di tornare indietro, occorreva seguire un percorso obbligatorio fino all’uscita. Durante l’orario di visita al mausoleo era anche impossibile attraversare la piazza, se qualcuno ci provava le guardie iniziavano a fischiare e ti mandavano indietro.

Ho visitato la casa dove Ho Chi Minh visse dal 1958 fino al 1969 (l’anno della sua morte), è tutta in legno e ricalca le dimore tradizionali vietnamite. Poco lontano si vede un elegante palazzo, era la residenza delVietnamDiario_16.jpg Governatore Generale dell’Indocina e c’è un forte contrasto tra i due edifici. Sono poi stato al museo dello “Zio Ho”, ospitato in una costruzione in stile sovietico: i visitatori si comportano come un’orda di cavallette, toccano tutto, si accalcano e si schiacciano i piedi. Le esposizioni sembrano interessanti, ma è impossibile contrastare l’orda di vietnamiti in vacanza. Nelle didascalie la terminologia comunista la fa da padrona, termini come “maree revolutionaire”, “fantoche” o “puppet” (rivolti ai francesi e agli americani) si ripetono di continuo, mentre lo slogan nazionale “Doc lap – Tu Do – Hanch Phuc”  cioè “Indipendenza - libertà - felicità” è scolpito sui muri del palazzo.

Nei giardini del parco Cong Vien Bach Thao c’è chi mangia, chi si sdraia sui prati o sulle panchine, chi si fa scattare foto ricordo. Pochi possiedono macchine fotografiche e i fotografi abusivi hanno il loro bel daffare. Ho costeggiato due dei tanti specchi d’acqua della città, il Truc Bach e il lago occidentale (Ho Tay), il più vasto di Hà Nôi, fino a raggiungere le Pagode Quan Thanh e Tran Quoc, percorrendo una strada che fa da spartiacque tra i due laghi. La Pagoda Tran Quoc è una delle più antiche del Paese e si trova su un’isoletta in un luogo piccolo e raccolto. Il sole splende in cielo ed il clima è caldo e umido: i più si godono il fresco nei parchi cittadini, giocano a carte, mangiano e bevono Bia Hoi, le coppiette amoreggiano, io invece, mi ostino a fare estenuanti camminate. In un ristorantino all’aperto ho ordinato maiale arrosto e Bia Hoi, mi ero fermato perché incuriosito dall’abilità del cuoco che con colpi rapidi e secchi lo tagliava in minuscoli pezzettini. Veniva servito con foglie di menta e con la salsaVietnamDiario_17.jpg nuoc mam e la sua pelle era più lucida di quella di un’anatra laccata. Mi hanno anche servito del salame di colore marrone scuro che al posto del grasso aveva pezzi d’arachidi.

Mi sono poi incamminato verso il ponte Long Bien, costruito dai francesi nel 1902. Attraversa il fiume Rosso ed il traffico è limitato a moto e bici. Sul ponte passa anche la linea ferroviaria e all’arrivo del treno, il ponte vibrava così tanto da ricordare il terremoto. Al tempo della guerra con gli americani, questo era l’unico collegamento con la città. Spesso veniva bombardato, ma i Nord Vietnamiti riuscivano a ripararlo a tempo di record.

Dopo una sosta al “Camellia II” ho deciso che staserà cercherò di vivere la Hà Nôi “by night”: la vita notturna della capitale non è paragonabile a quella di Saigon, ma c’è qualche locale degno di nota. Mi sono fatto portare all’Apocalypse Now, il pub più famoso della città, era in ristrutturazione e un cartello annunciava la riapertura per la settimana successiva. Sono poi stato al Golden Cock (un locale dal nome intraducibile) e al Polite Club, ma entrambi erano vuoti e mettevano tristezza, così mi sono accontentato di un locale all’aperto che serviva Bia Hoi.

Alla mattina sono stato al quartiere delle ambasciate, nelle vicinanze ci sono il palazzo presidenziale, la banca centrale e l’Hotel Sofitel Metropole, tutti edifici con un fascino coloniale particolare. I parchi sono invasi dagli scolari, tutti indossano la divisa della scuola d’appartenenza e sono un’onda colorata di bianco e blu in movimento. In una libreria (le migliori si trovano in Pho Trang Tien), ho trovato alcuni libri sullo “Zio Ho”, sul periodo francese e testi di storia scritti dall’altra parte della barricata. Dai venditori diVietnamDiario_18.jpg libri fotocopiati ho comprato “Il Tranquillo Americano” di Graham Greene (ambientato nel Vietnam degli anni cinquanta) e ”Il Dolore della Guerra” di Bao Ninh che narra le vicissitudini della guerra con gli U.S.A., viste da un soldato dell’esercito del Vietnam del Nord.

A mezzogiorno ho mangiato pho con “lemon grass” e carne alla griglia. I tavolini dei ristorantini occupano i marciapiedi e beneficiano dell’ombra dei viali alberati, su ogni tavolo c’è un buon numero di piccoli piattini: tutti si servono utilizzando le bacchette.

Dopo avere schiacciato un pisolino, sono andato a visitare il “Quartiere delle 36 strade” (36 Pho Phuong). Nel tredicesimo secolo, le 36 corporazioni di Hà Nôi si stabilirono in questo quartiere ed ognuna diede il nome ad una via. Nella toponomastica, il nome della strada è seguito dal nome dei prodotti venduti. Hang significa merce, così Hang Gai significa strada dei venditori di seta, Hang Hanh strada dei venditori di cipolle, Hang Duong strada dei venditori di zucchero. Ognuna aveva odori e rumori particolari: c’era silenzio solo in quella dove si vendevano grosse statue del Buddha, in quella dei falegnami invece, il rumore era superiore ai clacson. In quella dei lattonieri si costruivano stufe, serbatoi, secchi ed utensili e se ti soffermavi, vedevi gli oggetti che prendevano forma. E’ stata un’esperienza ancestrale perché questa manualità va scomparendo. Nella strada delle erbe medicinali c’erano negozi con scaffali traboccanti d’intrugli misteriosi: erbe, bacche, radici, tuberi, funghi, ossa e geki essiccati che facevano venire in mente antiche farmacie. Tutti erano intenti a triturare, a sminuzzare e polverizzare i prodotti con centrifughe somiglianti aVietnamDiario_19.jpg frullatori, costruite con i motori elettrici delle lavatrici.

Mi sono entusiasmato per le bottiglie di grappa con scorpioni e serpenti sotto vetro (ruou ran), ne ho scelta una con un cobra sotto spirito che teneva in bocca un serpentello verde, un rimedio indicato per curare reumatismi, lombalgia e eccessiva sudorazione. Ero preoccupato che la bottiglia si potesse spaccare e di trovare il serpente sotto spirito tra i vestiti. Le esplorazioni sono continuate: ho camminato per le vie specializzate nella vendita di shampoo e sapone, del rattan, dell’incenso e dei cesti in bamboo. Mi sono poi seduto a bere bia hoi allungata con ghiaccio e ad osservare la vitalità del quartiere. Anche da spettatore, mi sembra di partecipare a questa disordinata vita di città.

Dal Quartiere delle 36 strade ho raggiunto il mercato Dong Xuan, un posto immenso e al coperto dove lavorano tremila persone. E’ stato ricostruito dopo l’incendio del 1994 e nel rogo bruciarono cinque mercanti che preferirono morire, piuttosto che abbandonare la merce. Da un venditore improvvisato, un pensionato che aveva esposto la mercanzia sul marciapiede, ho comprato una nave di latta costruita a mano, è coloratissima e batte bandiera vietnamita. In un catino, ha avuto il battesimo dell’acqua.

In serata, sono stato al Teatro delle marionette d’acqua (Roi Nuoc) che si trova al n. 57 di Dinh Tien Hoang Street, vicino al lago Hoan Kiem. Tutte le sere si esibisce la compagnia Thang Long: gli spettacoli sono due, alle 18.30 ed alle 20.00. Questa rappresentazione ha tradizioni millenarie, nacque intorno all’anno mille ma rimase sconosciuta agli occidentali fino al 1960. I contadini che lavoravano nei campi di riso iniziarono adVietnamDiario_20.jpg improvvisare gli spettacoli nel Delta del Fiume Rosso durante le piene. I palcoscenici erano stagni, laghetti e campi di riso e gli spettatori assistevano seduti sulle rive. Durante le dinastie Ly e Tran, (1010 – 1400) queste rappresentazioni, da semplice divertimento per contadini, diventarono un intrattenimento per il re e la sua corte.

La particolarità delle marionette è che sembra che camminino sull’acqua. I burattinai sono nascosti dietro una tenda a forma di pagoda che funge da sfondo, hanno il corpo immerso nell’acqua fino alla cintola e manovrano i pupazzi con un complicato sistema di fili e lunghe stecche in bamboo. Basta un burattinaio per ogni marionetta, ma quando la scena diventa complicata servono anche due o tre persone. Il palcoscenico è una gran vasca con l’acqua volutamente torbida, per non svelare il sistema dei fili. Un tempo, i burattinai per proteggersi dal freddo e dall’umidità bevevano nuoc mam, oggi utilizzano pratiche tute in gomma. Le marionette possono superare anche i cinquanta centimetri d’altezza e pesare più di quindici chili l’una, sono fatte con il legno di fico (sung) che è molto resistente e ognuna è usata per non più di quattro mesi.

 

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