Pensavo che i Montagnards (popoli di montagna)VietnamDiario_33.jpg si vestissero così per la gioia dei turisti, invece utilizzano i costumi tradizionali nella vita di tutti i giorni. Furono i francesi a chiamarli Montagnards, un appellativo ancora attuale e preferito a Moi, un termine annamita dispregiativo che significa selvaggio. Molti di loro, soprattutto quelli che vivono sugli altopiani centrali combatterono a fianco dei francesi e degli americani ed ancora oggi ne pagano le conseguenze.

Il paesaggio è collinare con i campi di riso terrazzati un po’ spelacchiati, non mancano gli abeti ed il terreno ha un colore rossastro che ricorda i campi da tennis. Prima di Bac Ha il bus si è rotto e il guidatore e alcuni passeggeri si sono messi ad armeggiare con il motore, poi abbiamo incontrato una frana e le ruspe si davano un gran daffare per liberare la carreggiata.

 

Bac Ha

Dopo tre ore siamo arrivati nella piazza principale del paese e ho preso una stanza che puzza d’umidità all’Hoang Vu Guest House. A Bac Ha sembra di tornare indietro nel tempo, di entrare in una dimensione bucolica dove i contadini coltivano scenici campi di riso e granoturco ed i bambini lavano nelle pozze i bufali d’acqua. Le donne lavorano con i costumi tradizionali e portano una gerla sulle spalle. Le più vecchie sembrano streghe, cui manca solo la scopa per volare. Quando la scuola è terminata, nugoli di ragazzini si sono riversati per le strade: i maschietti indossavano una specie di pigiama nero, le bambine, un vestito identico a quello delle donne adulte. Qui persino le moto sono rare e le strade secondarie sono di terra e si sprofonda nel fango. A piedi mi sono incamminato verso il villaggio di Ban Pho che si trova sulla cima di una collina: ormai il sole stava colorando tutto di rosso, così sono tornato indietro senza arrivare alla meta. Tornerò domani, dopo la visita del mercato di Cau Cau. Dopo avere cenato al ristorante Cong Phu sono andato a dormire.

Cau Cau

Alla mattina è venuto a svegliarmi il proprietario dell’albergo e mi ha regalato un mellifluo buon giorno. Per le strade, i bambini si avviano a scuola, i cani sono alla ricerca di cibo e le “donne spazzino” utilizzano una carriola che ricorda i carrelli dei minatori. Piove a dirotto e c’è una leggera nebbiolina, i più si proteggono con piccoli ombrelli, impermeabili di plastica o fogli di giornale. Dopo venti chilometri sono arrivato a Cau Cau, il confine cinese è vicino, a meno di quindiciVietnamDiario_34.jpg chilometri. Il mercato è piccolo e raccolto e ci sono quattro zone ben definite: ai bordi della strada si vende frutta, all’interno stoffe e ricami per gli elaborati vestiti delle donne H’mong, poi ci sono le zone con i ristorantini e il bestiame. Nei ristorantini, ricavati in strutture di bamboo ricoperte di juta, si consumava  pho con carne e vegetali. Qui i volatili venivano sgozzati  per essere cucinati e con il sangue ancora caldo si facevano strani intrugli da bere o da aggiungere alle zuppe. I commercianti cinesi invece, erano specializzati in minuteria metallica, articoli elettronici e sementi. 

Nel tornare a Bac Ha ho mangiato una ciotola di pho e al ristorantino ho conosciuto Luca, un Italiano che è partito da Hà Nôi con una moto Minsk e proseguirà verso Dien Bien Phu: questo era il viaggio che volevo fare anch’io, ma sono stato frenato dalla stagione dei monsoni. Con la Minsk siamo andati a Ban Pho. La strada era un fiume di fango, così dovevo scendere a spingere: sono riuscito a stare in sella per buona parte del percorso, poi ho continuato a piedi. Le case sono di fango con il tetto in paglia o lamiera, il pavimento è in terra battuta, mancano elettricità e TV. I cani da guardia ringhiano in modo aggressivo e sono un invito a stare alla larga. Si sente un odore di bruciato perché il fuoco all’interno delle abitazioni è sempre acceso e una flebile fiamma riscalda le tinozze, per conservare l’acqua calda. Per trasportare l’acqua alle case del villaggio c’è un sistema di condutture, formato da canne di bamboo intrecciate tra loro, è ingegnoso e fa venire in mente gli acquedotti degli antichi romani.

Un H’mong mi ha invitato nella sua capanna, facendomi provare la sua pipa ad acqua e un liquore dal sapore sgradevole ottenuto dalla fermentazione del grano. Queste pipe sono formate da un lungo pezzo di canna di bambù e il tabacco viene inserito in un minuscolo fornelletto: se si aspira, l’acqua brontola come quella di una pentola in ebollizione. Ho salutato Luca e la sua Minsk e mi sono incamminato verso Bac Ha: per la strada era un continuo rispondere agli “Hello” dei bambini che giocavano con le trottole di legno. Per farle girare utilizzavano rami di bamboo e una sottile corda. Mi hanno indicato una scorciatoia che attraversava i campi di granoturco, ma si scivolavaVietnamDiario_35.jpg e si cadeva a terra. Il paesaggio era settembrino con montagne e colline avvolte da una leggera foschia, mi guardavo attorno e mi pareva di avere raggiunto lo Shangri La o i giardini dell’Eden. Era un mondo bucolico distante anni luce dalla mia quotidianità. La visita al villaggio è stata interessante, il posto non è un’attrazione turistica, ma un luogo dove si scopre quanto è dura la quotidianità. Dopo una doccia sono tornato a mangiare al ristorantino di ieri, poi sono andato a dormire.

La domenica è giorno di mercato: quello di Bac Ha è più grande di quello di Cau Cau, oltre agli H’mong ci sono anche i Tay e i Nung. Dai pentoloni dei ristorantini escono dense nuvole di fumo che fanno lacrimare gli occhi. E’ interessante cercare di interpretare che cosa contengano. Ho fatto colazione con una zuppa di germogli di bamboo e frittelle dolci dure come il cemento, ma le vere ghiottonerie sono le interiora bollite e i pezzi di grasso di maiale lessato. I bambini sono attratti dai venditori di gelato, per tenerlo al fresco si usano panni bagnati e contenitori di polistirolo. I venditori si piazzano agli incroci delle vie e per attirare l’attenzione utilizzano una trombetta, quelli con i carretti invece, diffondono dai mangianastri musica vietnamita.

Nella zona degli animali ti incuriosivano i piccoli maialini neri. Venivano trasportati in gabbie di bamboo e per non farli scappare, gli legavano una zampa ad una corda. I compratori li sistemavano in sacchi di juta, per poi infilarli nelle ceste che si portano sulla schiena. Un altro florido commercio era quello dei cuccioli di cane, venduti sia come animali da compagnia, sia per essere mangiati. In un prato si teneva il mercato dei cavalli, questi sono di taglia più piccola rispetto ai nostri e assomigliano a quelli usati dai mongoli. Prima dell’acquisto venivano montati e lanciati al galoppo per saggiarne le capacità. Un settore che faceva affari d’oro era quello dei distillati e si vendevano grappe ricavate dalla fermentazione delle prugne e del granoturco. L’alcool era conservato in grosse taniche e gli acquirenti lo riversavano in contenitori più piccoli o nelle bottiglie di plastica. Le donne indossano gli abiti tradizionali e ti chiedi come possano sopportare vestiti così spessi e pesanti. Sono restie nel farsi riprendere, appena vedono la macchinaVietnamDiario_36.jpg fotografica si voltano dall’altra parte, bambini e uomini invece, sono più disponibili. Molte portano il figlio dietro la schiena, all’interno di un marsupio di coperte e panni. Il piccolo non si lamenta, probabilmente è già abituato a soffrire.

In tarda mattinata il mercato è terminato, la gente con le gerle colme d’acquisti ha ripreso la via di casa e Bac Ha è tornata quella di sempre. Al mercato ho comprato una borsa tribale, una giacca nera, sciarpe e monili. Nel pomeriggio ho preso il bus per Lao Cai, il paesaggio sembrava più bello di quello dell’andata, forse perché la luce morbida del tramonto rendeva tutto più caldo. Era un susseguirsi di piantagioni di the, di risaie, prima terrazzate e poi pianeggianti. Le donne lavoravano nei campi e tra il riso emergeva il cappello conico color panna. I bambini si appostavano in prossimità delle curve e quando il bus passava, si sentiva un coro di “Hello”.

A Lao Cai ho acquistato un biglietto del treno nella classe “sedili duri”, le cuccette erano esaurite, o meglio, i posti erano in mano alla mafia locale e per averne una occorreva pagare il doppio. Ero stufo di questo latrocinio a carico degli stranieri e mi sono rifiutato di acquistarlo. Mentre gli altoparlanti inondavano le strade di musica e di discorsi patriottici, ho ingannato il tempo bevendo bia hoi e mangiando involtini di carne avvolti nelle foglie di banano.

Le panche di legno della carrozza dovrebbero ospitare due persone, ma visto l’affollamento si sta seduti in tre. Non si contano le merci e gli scatoloni, sotto un sedile c’era una borsa con un gatto che continuava a miagolare. Tutti fumavano e ammorbavano l’aria già pesantemente viziata. Trovare una posizione ideale era impossibile, i vietnamiti invece, dormivano a braccia conserte o si sdraiavano aggrovigliandosi come contorsionisti. Il mio dirimpettaio metteva le gambe da tutte le parti e dovevo scacciare in malo modo i suoi piedi. Ad una stazione un passeggero ha comprato pezzi di canna da zucchero e li ha distribuiti, erano buoni e dolci: quest’ulteriore opera di fraternizzazione ha aumentato i rapporti interpersonali e le domande verso di me. La gente prova un’irrefrenabile curiosità nel vedermi scrivere il diario, nel guardare i peli delle braccia e l’orologio, ma nessuno riesce ad interpretare l’ora.VietnamDiario_37.jpg L’esperienza è stata divertente, sicuramente improponibile se avessi scelto il vagone letto.

Siamo arrivati a Hà Nôi con il buio, la gente affollava i mercati, c’era chi faceva colazione con il pho e chi faceva Tai Chi sui marciapiedi. Nonostante l’ora, ero infastidito dai moto taxisti e dalle venditrici di baguettes che mi lanciavano occhiate interrogative, nella speranza che comprassi qualche cosa.

Nel pomeriggio ho preso il treno per Hue, il famoso Espresso della Riunificazione che copre i 1.726 chilometri da Hà Nôi a Ho Chi Minh City (l’ex Saigon) in trentadue ore: la costruzione della linea ferroviaria iniziò nel 1899 e terminò nel 1936. Ho trovato una cuccetta in classe “letti duri”: quello che la contraddistingue dalla “letti soffici” è la durezza della panca e i sei posti per scompartimento, invece di quattro. Mi trovo al terzo livello, il più economico ma anche il più scomodo perché vicino al soffitto. Ho conosciuto un professore che insegna matematica all’Università di Hue, il Dr. Trau Vui. Domani sarò ospite a casa sua: ho accettato con entusiasmo, perché sono curioso di visitare una casa vietnamita. Alla mattina mi sono svegliato con un paesaggio diverso: una pianura poco fertile con rari alberi, terra rossastra e le Highlands in lontananza.

Hue

A Hue, sono andato al Thai Binh Hotel, in Nguyen Tri Phuong, una traversa che interseca le grandi arterie della città. Ho noleggiato una moto Honda Daelim: all’inizio è stato traumatico, non avevo idea di dove mi trovassi e tutti mi tagliavano la strada, ma quando ti abitui a questa pazza guida ti rilassi non ci fai più caso.

Ho costeggiato il Fiume dei Profumi per raggiungere la Pagoda della Signora Celeste (Thien Mu), fu costruita nel 1844VietnamDiario_38.jpg dall’imperatore Thieu Tri ed è il simbolo di Hue. La leggenda narra che una dea chiamata “Signora Celeste” apparve ad un antenato dei Nguyen, che gli ordinò di costruirne una sulla collina. I sette piani della torre ottagonale rappresentano le diverse reincarnazioni del Buddha e la sua campana fa 108 rintocchi giornalieri (quante le illusioni della vita) e si afferma che il suono si oda fino a dieci chilometri di distanza. In un padiglione è esposta l’Austin azzurra utilizzata da Thich Quang Duc per arrivare a Saigon, il primo dei tanti monaci che dal 1963 in poi, si diedero fuoco per protesta contro il presidente Diem. Sua cognata, la signora Nhu, chiamò questo sacrificio “barbecue party”, facendo il verso alla frase di Maria Antonietta che durante la Rivoluzione francese disse: “Se non hanno pane, mangino brioches!”.

 

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