A Likir ci  troviamo ad oltre 3.500 metri d’altezza, un posto, come Lamayuru, popolato da viaggiatori e da “anime erranti senza pace”, alla ricerca di un qualche cosa di misterioso e indefinibile. Che cosa sarà mai? Voglia di fuggire dal Mondo, ricerca della propria identità, ricerca della pace interiore, voglia di fuggire da se stessi e chissà quant’altro.

Cosa spinge persone di tutte le età, dai ragazzi poco più che maggiorenni, ai maturi cinquantenni, a venire qui, su queste montagne ed in queste valli? Non è solo la voglia d’esotismo o dimontagna che ci spinge quassù, o “l’impresa” di avere percorso la strada “Manali – Leh” “On the road”, ma è un qualche cosa di più oscuro ed intricato che forse trova la sua risposta nel Mantra “Om mani padme hum” che significa “Il tesoro si trova nel fiore di loto” cioè “il tesoro è rappresentato dalla luce nascosta nel fiore della mente”. In posti come il Ki Gompa, Lamayuru, Matho Gompa o Likir è possibile scoprire la luce nascosta nel fiore della mente? Quando la luce diventerà luce, se mai lo diverrà?

Che cosa spingeva l’occidentale di Tabo a fare thuppa e chomin, Eva la teutonica a mondare i piselli, Hawkins l’australiano a preparare il semolino ed a lavare i piatti per la famiglia di Kaza o gli ospiti della Norboo Guest House a trasportare i covoni d’orzo con il sorriso sulle labbra? Forse non troverò e nessuno di noi, “anime erranti”, troverà risposta a questa domanda, ma è bello o almeno lo sarebbe, svegliarsi una mattina ed essere illuminati dalla luce nascosta nel fiore della mente. Erano mesi che pensavo su come e quando discorrere su questo mantra. La visione di questa valle dell’Eden, di questi campi dorati e di questo cielo stupendo me ne hanno dato l’occasione. Oggi è il primo giorno che vedo il mio viaggio non come un’epica cavalcata fra passi Himalayani e meravigliosi Gompa. Il soggiorno a Lamayuru e a Likir mi ha fatto vedere il viaggio con occhi diversi.

Seduto nella bellissima cucina Ladakha, se alzo gli occhi, posso leggere una frase scritta a caratteri cubitali: “May all beings be happy”, frase ancora più espressiva perché notata proprio adesso. Questo mi fa venire in mente com’è scelto il futuro Dalai Lama: sarà scelto il bambino che saprà riconoscere determinati oggetti e saprà immedesimarsi in determinate circostanze. Dopo una cena a base di chapati e vegetali e dopo numerosi brindisi con il chang, una birra leggera a base d’orzo, ho raggiunto il mio charpoy e mi sono addormentato.

Stamattina mi sono svegliato alle sei, il tempo è capriccioso, ci sono squarci d’azzurro che convivono con nuvole basse e minacciose, scende anche qualche goccia di poggia e nella notte, sulle montagne che sovrastano il monastero ha nevicato a bassa quota. Ho fatto colazione con pane tibetano e burro salato. Norboo controlla che tutto sia a posto e passeggia nervosamente avanti ed indietro come un “grand commis” di un hotel “cinque stelle”. Lancia rapide occhiate a destra ed a sinistra, poi va a ricongiungersi con Padma, la figlia di sei mesi che ride e si agita su una panca. Norboo ha mani grosse come badili che contrastano con la figura esile della figlioletta. Eva, con l’aiuto di due maniglie legate da una corda, continua ad agitare un otre che contiene acqua, latte e sale: tra due ore, sarà pronto il burro.

Mi sono incamminato verso il Gompa, mi hanno invitato in una casa, dove tutti volevano farsi fotografare. Le donne, sempre restie nel farsi immortalare, facevano a gara nel farsi belle, indossavano il vestito della festa ed il tipico cappello Ladakho che assomiglia alla tuba dello “Zio Paperone” di Walt Disney. La donna più anziana del villaggio, indossava una cenciosa tunica e sulla schiena aveva un mantello di pelle di pecora, sembrava una strega. Davanti all’entrata del Gompa c’è un’enorme statua di Buddha che domina la valle, l’interno è bello, ma ormai non apprezzo più i templi come prima, poiché ne vedo più di uno al giorno. Sono entrato in un negozietto che vendeva l’impossibile, mi hanno colpito alcune marche di saponi come “Lifeboy”, “Wheel”, “Fena” o “Chek”, c’era anche una macchina per cucire, mi sono fatto aggiustare i calzoni.

Tornato all’alberghetto ho bevuto un’ultima tazza di chai e sono partito per Alchi. Me ne vado con “la morte nel cuore” perché è il posto più pacifico ed amichevole incontrato fino ad ora. Ho raggiunto la strada principale e quasi subito ha ricominciato a piovere. Tutto attorno ci sono sassi, sabbia e montagne grigie e incappucciate, sono ammantate dalle nuvole e sembrano più minacciose del solito. Il silenzio è assoluto ed è rotto solo dallo sventolare delle bandiere di preghiera. Dopo una lunga attesa è arrivata una jeep che mi ha dato un passaggio.

Alchi

Alchi  ha un Gompa particolare, non è scenografico come quelli arroccati sulle cime delle montagne, perchè si trova nel mezzo di una valle. Gli interni in legno sono finemente lavorati, le pareti sono affrescate con centinaia di Buddha e nel chiaroscuro le statue hanno un loro fascino. A fianco del Gompa c’è un accampamento di colore arancione, le tende sono occupate da novizi (dai dieci anni in su), mi hanno spiegato che è una specie di colonia estiva, tutti ballano al ritmo della musica da discoteca Indiana e si arrampicano sugli alberi come scimmie. Dopo avere pranzato allo “Zimskhang Restaurant” con dei pessimi “fried noodles”, il proprietario di una moto “Vespa”, in cambio di un litro di benzina, mi ha portato al villaggio di Saspol.

Non si vedono autobus diretti a Leh e i mezzi ai quali lancio segnali non accennano a rallentare. Mentre iniziavo a perdere la fiducia, un camionista si è fermato per darmi un passaggio. Il camion arancione è coloratissimo, ha tante scritte tipo “Oh God, save me!” o “Horn please”, sopra il finestrino c’è il lasciapassare per gli Stati Indiani nei quali può circolare. La cabina di pilotaggio è spaziosa e ci possono stare tre passeggeri oltre all’autista. Il rumore è infernale, gli scossoni sono tanti, la velocità media è di venti chilometri l’ora, sembra di essere su una ruspa o su un carro armato. Quando si viaggia in pianura la velocità è bassa, nell’affrontare le salite si va a passo d’uomo. Quando poi il camionista (ribattezzato “L’uomo di Srinagar” perché proviene da lì), deve sterzare o curvare, per la fatica che fa nel girare il volante, assomiglia ad un personaggio mitologico, un Ercole o un “Sansone contro i Filistei” in versione Himalayana. Spesso ci si ferma vicino ad un ruscello per fare bere il radiatore. Dopo tre ore ecco finalmente Leh, ho salutato il guidatore mussulmano con un “Insciallah” e nel buio della notte mi sono incamminato verso Changspa.

Un indigeno in “Vespa” mi ha dato un passaggio. Arrivato alla Guest House sono stato riverito dai soliti “joole” che ho ricambiato calorosamente, per cena non c’era più nulla, ma sono riuscito ad ottenere un piatto di riso bollito che ho mangiato con una scatola di tonno portata dall’Italia. Mi sono svegliato alle sei e ho lavati i vestiti al ruscello, poi con le mani ancora ghiacciate, ho fatto colazione con omelette e pane tibetano. Alla stazione dei bus dovevo prendere la corriera per il Gompa di Hemis, ma non l’ho vista, così sono andato al Gompa di Spituk. Imbronciato per “l’autobus fantasma” e per l’inutile attesa di quasi due ore, sono arrivato a Spituk in dieci minuti.

Spituk

Il Gompa si trova su uno sperone roccioso, il panorama è rovinato dalla vicinanza dell’aeroporto. Tre monaci stavano fabbricando un mandala di sabbia, la vista di quest’opera mi ha rasserenato. E’ grande e per terminarlo ci vogliono due giorni, i monaci lavorano seduti chini e a gambe conserte su un grande ottagono di legno, sul quale è disegnata a matita la figura da riprodurre. Alcune ciotole contengono sabbia colorata, per farla scendere utilizzano lunghe cerbottane che posano su un cuscino, così riducono le vibrazioni. Si aiutano con manici di coltello, che utilizzati ritmicamente, permettono alla sabbia di posarsi più delicatamente. Ogni tanto fanno una pausa per il tè e cercano di memorizzare il lavoro da fare, il disegno è riprodotto su un cartamodello. In un angolo, un novizio prova e riprova a disegnare dei fiori di loto, poi rimette la sabbia nella ciotola e ricomincia da capo.

Tornato a Leh ho sentito nell’aria una musica che proveniva dal Gompa situato fra Fort Road e Bazar Road, guidato dalle note l’ho raggiunto, chiedendo se fosse possibile acquistare la musicassetta, i monaci mi hanno indirizzato al “Mahabodhi International Meditation Centre”. Il posto era deserto e i discepoli erano in meditazione, per non disturbarli ho lasciato perdere. Attratto dalla lusinghiera descrizione della L.P. sul ristorante tibetano “La Montessori”: “Serves up big portions of very tasty chinese and tibetan food, and it’s popular with local monks”, mi sono accomodato al suo interno ed ho ordinato il “today special”, ossia tè tibetano alle erbe e piccole pannocchie fritte. Per nulla sazio, ho proseguito con dei “fried noodles”. Non ho visto monaci, forse avevano cambiato ristorante: le porzioni erano piccole e non sono rimasto soddisfatto! Il pomeriggio è trascorso fra acquisti al mercato tibetano e al bazar, dopo una visita al cerusico, sono salito allo Shanti stupa per vedere un’ultima volta Leh dall’alto. Tutta la valle, nella luce del tramonto, brillava di un colore rosso porpora.

Alla Guest House mancava la luce, così ho dovuto sistemare lo zaino e fare la doccia con l’aiuto della torcia elettrica. Dopo una cena a lume di candela, a base di ravioloni in brodo, sono andato a dormire. Mi sono svegliato alle cinque, stamattina ho il bus per Manali. La luce inizia a poco a poco a prendere possesso del suo spazio vitale, attorno al bus si vedono solo i cani e i futuri compagni di viaggio. Ci siamo fermati ad Upshi per un “controllo passaporti”, ho fatto colazione con chapati e omelette. Al passo Taglang La, una famiglia tibetana ha appeso una lunga fila di bandiere di preghiera al piccolo tempio. Dopo 184 chilometri ci siamo fermati a Pang per il pranzo. Nel pomeriggio abbiamo effettuato una sosta per i bisogni corporali, mentre stavo terminando l’operazione, l’autista ha dato due veloci colpi di clacson ed è ripartito, mi sono ricomposto velocemente ed ho iniziato un inseguimento che si è concluso dopo un centinaio di metri: ad oltre 4.500 metri d’altitudine ero in debito d’ossigeno.

Dopo 263 chilometri e dodici ore di viaggio, abbiamo passato la notte all’accampamento di Sarchu, con una cena a base di fagioli riscaldati e riso, poi mi sono infilato nel sacco a pelo. Questo viaggio da Leh a Manali sembra meno lungo di quello dell’andata. Sarà perché questa strada l’ho già percorsa, idealmente rappresenta l’addio all’India (una sensazione comune a tutti gli occupanti del bus), o perché mi sono assuefatto a questi mezzi. Sembra di essere all’ultimo giorno di scuola, o di assistere ad una partita di calcio che non ha più nulla da dire, ma che deve essere giocata fino al fischio finale.

La sveglia è arrivata con una fumante tazza di chai che mi è caduta a terra dopo la prima sorsata, fuori è buio e fa freddo. Mi sono vestito “a cipolla” con tutto quello che avevo, compresi guanti e cappello, tutti tossiscono ed il bus sembra un cronicario. Nei rari rettilinei l’autista accelera, nell’affrontare le curve e durante le frenate, oscilliamo paurosamente, quando ne incrociamo un altro, se c’è poco spazio l’autista usa la massima cautela, se invece c’è n’è in abbondanza, accelera, facendo il pelo a precipizi e burroni. A Darcha ci siamo fermati per la colazione, ho ordinato chapati che ho accompagnato con la “Nutella”, era difficile estrarla perché per il freddo si era cementificata, al contatto con il pane caldo si scioglieva perfettamente. In ogni ristorantino, le lattine di Coca Cola e le bottiglie di Pepsi sono messe in mostra come se fossero orologi di gran marca o i pezzi migliori dell’argenteria di famiglia.

 

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