Tabo

Dopo due ore e mezzo di bus sono arrivato a Tabo: il suo Gompa (monastero), costruito nel 996 Dopo Cristo, da Ringchen Zangpo “The Great Translator”, formato da nove Templi tutti affrescati, è uno dei luoghi più sacri per il Buddismo Tibetano. Ho trovato alloggio all’interno del monastero, al dormitorio della “Millenium Guest House”, si chiama così perché nel 1996 si sono festeggiati i primi mille anni del Gompa. Dopo una doccia con acqua ghiacciata, sono andato al ristorante del monastero ed ho ordinato chomin, i “fried noodles che ormai sono il mio piatto preferito. Il ristorantino è gestito dai monaci, fra gli avventori ci sono sia locali che viaggiatori, i miei vestiti mi fanno sentire “anormale” rispetto a quelli indossati dagli altri occidentali. Le donne portano tuniche con grandi collane “Sadu style” e pantaloni indiani multicolori, indossati anche dagli uomini. Nel ristorantino tutti stanno zitti e nella mia immaginazione penso di essere alla mensa dei frati, come nel film “Il nome della rosa”, dove era imposta la regola del silenzio. Al mio tavolo siamo seduti in otto, tutti mangiano sommessamente, vorrei esternare la mia gioia per essere arrivato qua, magari parlando con qualcuno, mi limito invece a scrivere il diario. Sono arrivati i miei chomin con le verdure, fra gli ortaggi c’è anche la pelle delle carote, ho troppa fame e la mangio avidamente. Fra le diete, penso che quella del “Pianeta India” sia una delle più indicate e più a buon mercato: per colazione un chai con biscotti, a mezzogiorno quasi nulla, la sera zuppa di vegetali con chapati o fried noodles. Dopo un chai al cardamomo sono andato a dormire, il mio “Ferragosto Indiano” si sta concludendo. Oggi in India è la festa dell’Indipendenza, proprio cinquant’anni fa, il quattordici Agosto 1948, Nehru, nel suo discorso alla radio pronunciava queste parole: “A mezzanotte, quando la gente dormirà, l’India si sveglierà alla vita ed alla libertà”.

Mi sono svegliato all’alba, per assistere alla Puja (la preghiera mattutina) dei monaci appartenenti alla setta dei “Berretti Gialli”. Ieri il “monaco albergatore” mi aveva detto che l’indomani avrebbero suonato il gong per chiamare tutti a raccolta. Con puntualità “poco svizzera”, il gong è suonato in ritardo ed il primo ad arrivare sono stato io con la mia nuova coppia d’amici: Dee ed Hawkins, una canadese e un australiano. Verso le sei del mattino un monaco ha aperto la porta del tempio e a poco a poco i monaci sono arrivati alla spicciolata: tutti si sono seduti a gambe conserte, disponendosi per due file parallele rispetto all’altare dove c’è un grande Thangka (un’immagine sacra dipinta su cotone) ed una foto del Dalai Lama. Il monaco che dirige la funzione è seduto su uno scranno e da lì, “domina” i monaci seduti al livello del pavimento. Quando sono iniziate le preghiere, i monaci facevano dondolare il capo e con voce grave recitavano una preghiera, che per il ritmo “cantilenante”, ricordava il nostro “Rosario”. Per pregare utilizzavano un “libro tibetano” formato da tanti rettangoli di carta i cui fogli non erano rilegati, ma impilati uno sull’altro. Alla fine della preghiera, il libro è stato avvolto in un panno di seta. Il salmodiare è accompagnato da suoni di campane, piatti, trombe e tamburi. Un “monaco cuciniere” con un gran bricco colmo di chai fumante riempie le ciotole dei monaci, ne ha portata una anche una a me.

Osservo la Puja, seduto a gambe conserte su un soffice tappeto tibetano, mentre bevo il tè. C’è un silenzio grave, i monaci bevono rumorosamente e nell’aria si sente il rumore del liquido che scende lentamente negli stomaci, mentre il fumo delle tazze si dissolve nella luce azzurrina del mattino. Dopo la pausa la preghiera è ricominciata, per un profano come me sembrava uguale a prima, la mia posizione a gambe conserte, da “comoda”, è iniziata a diventare “scomoda”, provocandomi dolore alle gambe. Dopo un’ora i monaci hanno terminato la preghiera e sono usciti alla spicciolata: la fine della Puja è stata simile a quando si toglie la corrente ad un giradischi e la musica istantaneamente smette di suonare e si lascia dietro uno strano eco.

Sono sceso a fare colazione al ristorantino del monastero, ho inaugurato il primo dei due barattoli di “Nutella” che mi ero portato dall’Italia, spalmando la crema di nocciola sul pane tibetano (una tonda focaccia senza sale). Nella cucina, un ragazzo occidentale con i capelli acconciati come Bob Marley sta preparando la pasta per i noodles, viene “tirata” e tagliata in strisce lunghe e sottili, una ragazza canadese invece, sta sbucciando alcune teste d’aglio. Dopo avere fatto colazione con Dee ed Hawkins ho visitato i nove templi che costituiscono il complesso monastico. Sono entrato in quello principale e ho aspettato che i visitatori se n’andassero, sono così riuscito a trovarmi solo al suo interno, ad avere il tempio “solo per me”. L’atmosfera è magica, l’unico rumore è quello della pioggia, il tempio è avvolto in una semioscurità quasi totale ed entra un po’ di luce da un buco nel soffitto, alle pareti ci sono Thangka e affreschi con più di mille anni di vita. Nella penombra è bello guardare queste pitture, a mano a mano che l’occhio si abitua se ne distinguono le forme. Anche gli altri templi sono interessanti, piove tanto ed è un continuo entrare ed uscire, un togliersi e rimettersi le scarpe: un’operazione monotona e fastidiosa.

Ho pranzato con dei grandi ravioli, i momo, un tipico piatto tibetano, sono ripieni di verdure ma sono insipidi. Per insaporirli, ho utilizzato la salsa all’aglio preparata stamattina dalla ragazza canadese ed un’altra al peperoncino. Nel pomeriggio sono andato alla scuola del monastero: i maestri giocavano con una specie di biliardo, ma al posto delle palle c’erano le pedine della dama. Bisognava infilarle nelle buche laterali, utilizzando la punta delle dita, gli scolari invece, giocavano a biglie fra le pozzanghere. Sono poi salito alle grotte che si trovano su un fianco della montagna che domina la valle, le ho trovate poco interessanti, purtroppo quelle affrescate erano sbarrate da porte chiuse con grandi lucchetti. Il tempo è nuvolo ed il sole esce e si nasconde continuamente, è un peccato, perché questa luce neutra non esalta il verde della valle ed i colori delle montagne, non mostra sfumature e asprezze, così il paesaggio risulta piatto. Con il sole, la valle si trasformerebbe e farebbe mutare anche il mio umore che è altalenante, sia per il tempo atmosferico che per la prosecuzione del viaggio.

Sono indeciso se rimanere in queste valli dell’Himachal Pradesh o se proseguire verso il Ladakh. Ho cenato con Enrick, uno scandinavo conosciuto a Nako. Forte della mia padronanza con la lingua tibetana ho ordinato thuppa invece dei chomin, così al posto dei “fried noodles mi hanno servito un’insipida zuppa in brodo. Mi sono svegliato alle sette, dopo essere stato punto per tutta la notte da più di una zanzara che resiste anche oltre i 3.000 metri d’altitudine. Stamattina, al tavolo della colazione ci sono persone che hanno tanto tempo per viaggiare: Enrick e Dee un anno, Hawkins sei mesi, una francese appena conosciuta quattro mesi. Mi ritengo fortunato perché il mio viaggio dura più di un mese, ma quando sento parlare di viaggi così lunghi sono un po’ invidioso e penso… beati loro! Il mio barattolo di “Nutella” non stimola le papille gustative dei commensali, piace solo a Dee e mi sembra strano, perché in Italia quando se ne apre uno, finisce subito. Questo l’avevo aperto ieri, tutto preso dai calcoli se rimanere in Himachal Pradesh o se dirigermi verso il Ladakh: per trovare l’ispirazione, n’avevo mangiate grandi cucchiaiate.

Ho rifatto lo zaino e sono andato alla fermata del bus nell’attesa di una coincidenza per Kaza, alla fermata c’è grand’eccitazione e confusione: tanta gente con valige, ortaggi e suppellettili, tutti vanno a Kaza perché c’è un festa. Aspettando il bus, alcune donne cantano una canzone ad un bimbo di pochi mesi ed usano come tamburo una tanica vuota. Verso mezzogiorno è arrivata una corriera, era talmente piena che non si è nemmeno fermata, i passeggeri sorridevano e ci facevano “ciao ciao” con la mano. Gli abitanti, con il sorriso sulle labbra, sono tornati alle loro case, io sono rimasto alla fermata deciso a trovare un passaggio. Dopo un’ora ho sentito in lontananza il rumore di una jeep che mi ha portato alla meta, con me c’erano Enrick, Dee, Hawkins e un monaco conosciuto al monastero di Tabo.

Kaza

Dopo un’ora e mezza di viaggio siamo arrivati a Kaza, è stato un problema trovare un tetto per la notte perché a causa della festa, tutte le “Guest House” e gli alberghetti erano pieni. Dopo avere imparato la frase “Camera yota” che in boothi (la lingua locale, parlata sia qui che in Ladakh) significa “Hai una camera per me”, con Dee e Hawkins ho trovato una sistemazione presso una famiglia del posto. Nel pomeriggio abbiamo camminato per Kaza che in occasione della festa, era diventata un enorme bazar. Fra le bancarelle abbiamo fatto piccoli assaggi: albicocche piccole come noci, samosa, dolci dagli strani sapori e pop corn. Oggi ho deciso di proseguire il mio viaggio per il Ladakh, per rendere “assoluta” la decisione sono andato alla stazione dei bus per acquistare il biglietto, ma ho solo ottenuto un pezzo di carta da quaderno sul quale c’era scritto che avevo prenotato un sedile sul bus di dopodomani. Mi dispiace lasciare queste valli, ma ho voglia di passi innevati oltre i 4.000 metri, di cieli perennemente blu e di Gompa tibetani. Tornato a casa ho trovato Dee e Hawkins in cucina intenti a pulire le verdure: cornetti, pomodori e cetrioli, tutto il necessario per un’insalata all’occidentale. Seduti a tavola a gambe conserte, con la famiglia che ci ospita, abbiamo mangiato attorno alla stufa, poi è arrivata altra gente che si è aggiunta a noi. Il menu comprendeva zuppa di patate con piselli, riso, insalata e uno yogurt molto forte, simile ad un formaggio caprino, da bere acqua.

 

                                    Glossario   1   2   3   4   5   6   7   8   9   10    | Diari Index