Questo viaggio è partito da Delhi nell’agosto del 1998. Passando per le colline di Manali, ho raggiunto prima il Kinnaur con i suoi contrafforti Himalayani e poi la Spiti Valley, dove si trova il Millenario monastero di Tabo. Ho attraversato la regione del Ladakh, percorrendo passi che superano i quattromila metri d’altezza. Dopo avere visitato la valle di Leh, sono tornato a Delhi. La particolarità di questo viaggio è stata di avere sempre viaggiato in autobus, di avere approfittato d’autostop su camion coloratissimi o su moto “Vespa”, quando era possibile, ho cercato di dormire e mangiare nei monasteri: volevo isolarmi dal “Mondo intero”. Volevo giornate scandite solo dal sorgere e dal tramontare del sole, dove trovare il tempo necessario per osservare, con ritmi non occidentali, quello che mi circondava. Cercavo questo, ed è stato ciò che ho trovato.

Finalmente si parte! Non sono ancora salito sull’aereo, ma è come se fossi già in India. Al “check-in” gli Indiani tornano a casa con una piramide di merci: dal forno a microonde, al grill per barbecue fino agli ultimi modelli di frullatore, insomma ho davanti a me un negozio d’elettronica. Siamo decollati con un’ora di ritardo rispetto all’orario preventivato, eravamo “incollati” ai nostri sedili con le cinture allacciate, nell’attesa che la torre di controllo desse “l’ok”. Quando è stato possibile slacciare le cinture, il “popolo dell’aereo” ha iniziato a rumoreggiare ed ad alzarsi: orde d’Indiani, con e senza bambini, hanno raggiunto la toilette. Il tempo passava lentamente tra un brano di musica “Hindi” e l’ultima fatica degli “Aqua”, ero in un continuo dormiveglia e ho preso sonno mentre servivano la cena, poi finalmente siamo atterrati a Delhi.

Dopo un rapido controllo del passaporto ed un altrettanto celere ritiro del bagaglio, sono stato sopraffatto da un’umidità avvolgente. Ho raggiunto la “Interstate bus station” da dove prenderò una coincidenza per Chandgarth, alla biglietteria mi hanno dato come resto, cinque coloratissime banconote simili ai soldi del Monopoli. L’autobus è moderno e di categoria “deluxe”, quello che lo distingue da un bus normale, un “ordinary”, sono i sedili in velluto, c’è anche la TV, il volume è talmente alto, che non ti permette di dormire. Il viaggio verso Chandgarth è stato monotono: il film era in Hindi e dal finestrino scorrevano immagini di campi coltivati (la regione del Punjab è il granaio dell’India), a rompere questa “monotonia agreste”, c’erano negozi e botteghe che vendevano l’inimmaginabile.

A Chandgarth ho avuto solo il tempo di bere un chai, poi ho cambiato autobus e ho preso una coincidenza per Shimla, la vecchia capitale estiva dell’Impero Britannico. Ben presto sono iniziate le colline (le “hill” come le chiamerebbero gli Inglesi), il caldo, da soffocante si è trasformato in un clima ottimale. Le colline sono di un verde che più verde non si può, la vegetazione è tropicale ed a poco a poco s’iniziano a vedere gli abeti che ricordano le Alpi. Iniziano anche a comparire le nuvole, sono basse e avvolgono tutto. Per strada c’e un flusso continuo d’autobus, di camion e di famiglie in vacanza che si spostano su moto “Vespa” o in macchina (è Domenica e la gita fuori porta è sacra). Nell’indifferenza totale, sia delle mucche sia degli uomini, tutti fanno un uso improprio dei clacson.

Shimla

In dieci ore sono arrivato a Shimla (2.206 metri). La cittadina assomiglia ad un villaggio svizzero con chalet dal colore pastello, non riescsi a capire quanto sia grande, perché anche qui, sei avvolto nelle nuvole basse che danno più un’idea di Pianura Padana che d’India, ogni tanto le nuvole si alzano ma la visibilità è minima. Le stradine hanno forti pendenze, solo il “Mall”, una via che forma un anello nel centro di Shimla è in pianura, un luogo dove ci s’incontra per lo struscio pomeridiano. Ho cercato una camera per la notte, ho scelto l’ostello della YWCA, definito dalla L.P. come: “It’s a convenient, friendly, old place, with great wiews”. Il posto per essere “convenient” lo era, se fosse “friendly” non era dato a sapersi perché era gestito da donne e ragazze che non parlavano inglese. Alla domanda se fosse possibile avere dell’acqua calda hanno risposto “domani” (acqua calda in un secchio, non acqua corrente), se avessi dovuto registrarmi e pagare la stanza hanno risposto “domani”, alla domanda sul perché dai rubinetti non scendesse nemmeno acqua fredda, avevo già intuito la risposta: “domani”.  “L’old place” era vecchio e cadente, invece, per quanto riguardava le “great wiews”, non potevo dire nulla perché la nebbia avvolgeva tutto. Sono andato alla scoperta delle stradine che si diramano in ogni direzione nei pressi del “Mall”: le nuvole basse regalano un’atmosfera autunnale, mentre le lampadine colorate e le luci al neon rosse e blu dei negozi ti fanno venire in mente il Natale. Un Natale diverso da quello italiano, in maniche di camicia ed avvolto in una calda nebbia.

Alle sei del mattino mi sono svegliato per fotografare Shimla, ormai è tardi, il sole è alto e dalle valli sottostanti le nuvole si sostituiscono al cielo azzurro, il paesaggio è sempre un “vedi e non vedi”. Dai rubinetti non scende acqua, così ho chiesto un secchio d’acqua calda per radermi, facendo una buffa esperienza: per attingerla dovevo utilizzare una tazza, il lavandino del bagno era piccolo e inutilizzabile, lo specchio si trovava vicino al letto ed ero obbligato a fare la spola fra una stanza e l’altra. Dopo l’acquisto del “The Times of India”, un giornale che riportava notizie di cronaca nera tipo: “Husband kills wife for refusing to prepare tea” ho cercato di fare colazione al “Goofa”, ristorante che la L.P. definiva così: “Serves a reasonable and early breakfast“. Non avevano ancora iniziato a servire le colazioni, poiché lo stomaco brontolava e non era propenso ad aspettare, ho cercato un altro posto. Mi sono infilato in un altro ristorantino e ho ordinato frittelle salate, condite con una salsa a base di patate, lenticchie e ceci. Le verdure crude erano sistemate ai bordi della pentola, man mano che cuocevano si formava un sugo che colava e si depositava al centro del pentolone, questa salsa era servita sulle frittelle o sul chapati.

Dopo colazione ho organizzato il viaggio verso Recong Peo (la capitale del Kinnaur), ho acquistato il biglietto del bus per il giorno successivo e sono andato al “District Magistrate” a farmi rilasciare “l’Inner Line Permit”, il permesso necessario per attraversare la zona indiana che costeggia la frontiera tibetana, fra le regioni del Kinnaur e dello Spiti. Sono poi andato alla “Railway Station” e sono salito sul “toy train”, sul “treno giocattolo” che percorre la ferrovia a scartamento ridotto costruita dagli Inglesi nel 1903, andrò alle “Summer Hills”. Ho percorso solo una piccola parte della linea ferroviaria, per percorrerla interamente (i chilometri da Shimla a Kalka sono 95), occorrono cinque ore e si attraversano 845 ponti e 102 tunnel. Le carrozze, come i sedili, sono piccolissime, i miei “vicini di panca” sono famiglie indiane in vacanza, i cui figli si contendono fra urla e pianti un “Topolino” in Hindi, i padri invece, cercano di immortalarli con videocamere e macchine fotografiche. Ho ribattezzato le “Summer Hills”, “Summer Fogs”, perché anche qui le nuvole basse la fanno da padrone e non si vede nulla. Ho bevuto un chai e nel tornare a Shimla, ha iniziato a piovere.

Dopo una sosta all’ufficio postale, sono entrato in una “sala giochi” per ripararmi: ci sono videogiochi che propongono corse d’auto, sono edizioni datate di quelli che si trovavano in Europa dieci o quindici anni fa. La maggior parte dei bambini sale sui sedili e cerca di sradicare i volanti, oppure utilizza le moto come cavalli a dondolo. Il proprietario vende quasi solamente coni gelato e bibite alla spina ed è contento così, anche i ragazzi dai venti anni in su, rimangono affascinati da questi giochi: li osservano, fanno il giro del locale e se ne vanno soddisfatti. Questo continuo piovere, queste nuvole basse che vanno e vengono, mi ricordano l’attesa sfibrante che devono sopportare gli alpinisti per avere le condizioni atmosferiche ideali per domare le vette degli 8.000.

Mentre scrivo, sto facendo uno spuntino in un ristorantino che serve cibi dalle “forme geometriche”: quando ti portano i samosa (triangoli di pasta frolla ripieni di verdure) o altri stuzzichini a forma di palla o di sfera (frittelle grosse quanto un pallone da calcio, piene d’aria e quindi leggerissime) ti portano anche due cucchiai, non ne basta uno? E’ dall’alba al tramonto che il “cuoco geometra” continua a sfornare e a cuocere le sue creazioni: dalla cucina gli portano una grossa e pesante palla d’impasto da cui a poco a poco, ne stacca dei pezzetti e con le mani dà la forma geometrica desiderata, poi le cuoce affogandole nell’olio bollente. Questi cuochi, quando danno forma alle loro geometrie, fanno schioccare l’impasto fra i palmi delle mani con consumata maestria.

 

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