Nel tardo pomeriggio siamo arrivati a Manali, ci sono volute tredici ore per percorrere 213 chilometri di strada sterrata, spesso ai limiti della percorribilità, guadando torrenti e fiumi, facendo salite che non finivano mai, con il bus che arrancava ad ogni curva e ti chiedevi se sarebbe stato in grado nel proseguire. Sono pentito di non essermi fermato a Gramphoo, ai piedi del passo Rothang e di non avere aspettato una coincidenza per Keylong o Leh. Domani dovrò fare il Rothang al contrario, se mi fossi fermato, avrei risparmiato più tre ore di strada.

 

Manali

Ho prenotato il biglietto per Leh, scegliendo la compagnia ritenuta la migliore a disposizione (o la meno peggio), quella governativa della HPTDC (Himachal Pradesh Tourist Development Corporation) di categoria “deluxe”, la corriera partirà domani alle sei di mattina. La “Manali – Leh” è la seconda strada carrozzabile più alta al mondo, aperta solo nei mesi estivi (neve permettendo) e lunga 485 chilometri. Ci vogliono due giorni interi per percorrerla, si valicano due passi oltre i 4.000 metri e due oltre i 5.000. E’ stata inaugurata nel 1989 ed è l’unica percorribile per arrivare a Leh, sempre che non si scelga di passare per il Kasmir e per Srinagar. E’ anche possibile arrivare a Leh da Delhi, con il volo giornaliero dell’Indian Airlines, ma non è facile trovare il biglietto e spesso il volo è cancellato se le condizioni atmosferiche non sono accettabili. Per dormire, ho diviso la stanza con un giapponese incontrato a Tabo, abbiamo spuntato un prezzo bassissimo per una camera doppia, sostenendo la tesi vincente che a Manali siamo in “off season”, perché piove sempre! Ho apprezzato questo breve ritorno alla civiltà: qui c’è veramente di tutto e mi sembra di somigliare agli abitanti dello Spiti che si aggiravano per il bazar di Kaza in occasione della festa, scoprendo un mondo di meraviglie.

Sono entrato in un “barber shop” e mi sono fatto radere la barba, era dal 1993 che non la tagliavo, che sensazione stana rimanere senza, era come se mi mancasse qualche cosa! Terminato il taglio, è iniziato un duro massaggio alla faccia. Da un cassetto, il barbiere ha preso una macchina simile ad un rasoio elettrico che aveva una “rotella gommata” al posto della lama e l’ha messa in funzione, una specie di “vibratore” tipo quelli pubblicizzati in televisione, vibravo tutto, persino naso e tempie. Poi è passato alla testa, mi dava delle energiche “manate”, come se stesse impastando la farina ed il lievito per preparare la pizza, battendo le mani e facendole schioccare sopra la testa come in un applauso. Ha terminato l’opera percuotendomi la schiena e facendomi quasi cadere dalla sedia, nel tentativo di staccarmi collo e dita. Ho cenato al ristorante cinese “Chopsticks” definito dalla L.P. come: “Are cosy, friendly place where you can order genuine chinese food”, ho ordinato momo (ravioloni tibetani) e pollo in grande quantità, come sottofondo, c’era musica occidentale e il servizio era quasi impeccabile. Sono uscito sazio e soddisfatto, soprattutto per aver mangiato un qualche cosa di diverso dal solito. Ho speso una somma “esagerata”: l’equivalente del costo di un viaggio e mezzo da Kaza a Manali e ritorno, oppure cinquantacinque chai, od otto piatti di riso e dhal, o tre notti al monastero di Tabo.

Mi sono svegliato alle cinque del mattino e dopo una colazione con un chai ed una pasta frolla ammuffita, sono andato alla corriera, che in due giorni mi porterà a Leh. Il bus, (anche questo simile ad un giocattolo di latta), sembra più lussuoso di quelli presi fino ad oggi, fra un sedile ed un altro c’è più spazio, ma i vetri dei finestrini sono “fumé” e fanno venire in mente un “carro funebre”. I nuovi compagni di viaggio sono per lo più inglesi, diversi da quelli incontrati in Kinnaur o nello Spiti, alcuni si atteggiano ad esperti viaggiatori e hanno un “abbigliamento tecnologico” con giacche a vento in “Goretex”. I più, prima della partenza, accorrono ad una bancarella piazzata davanti al muso del bus che prepara panini con omelette. Mi diverto a guardare il cuoco: prima sbatte le uova nel bicchiere, poi versa il contenuto nella padella. Quando l’omelette è pronta, la infila con cerimoniosità nel panino e ti regala un sorriso untuoso. Il programma odierno prevede, come una mitica tappa alpina del ”Giro d’Italia” o del “Tour de France” due passi: il Rothang (3.978 metri) che avevo già valicato ieri e il Baralacha La (4.883 metri). Ogni sosta è una processione verso i “luoghi feticcio”: tutti, me compreso, facciamo a gara per farci ritrarre in cima ai passi, vicino alle “bandiere di preghiera”, o vicino al cippo che indica a che altezza ci troviamo. Costeggiamo alti muri di ghiaccio, quelli che arrivano fino a valle sono rotti in più punti, visti dal bus, assomigliano a delle “tavolette di cioccolata” spezzate. A Kosar abbiamo sostato per il pranzo, ho mangiato momo conditi con salsa ketchup.

Talvolta il viaggio si interrompe a causa dei lavori per sistemare la strada: ruscelli, frane e nevai contribuiscono a rendere instabile il percorso. Fra me e me penso che la lotta contro le forze della natura non avrà mai fine. E’ un continuo cucire e ricucire la strada: per uno smottamento, per la dirompente forza della pioggia che ingrossa fiumi e torrenti. Osservo le persone che cercano di rappezzare al meglio quest’arteria: alcuni uomini fanno avanti e indietro con grandi massi che caricano e scaricano a mani nude dai trattori. Costruiscono contrafforti, erigono protezioni che prima o poi saranno spazzate via e questo paziente lavoro dovrà ricominciare. Altri uomini sminuzzano i sassi che servono a produrre il catrame, che viene preparato in vasche simili a casseruole. Mentre sassi, sabbia e bitume si amalgamo, si levano al cielo dense nubi di fumo nero. Una volta pronto, il catrame è travasato nelle carriole, versato sulla strada, e appiattito con i badili. Vedendo scorrere questo “mondo lillipuziano”, questo interminabile cantiere, fatto di sudore e fatica, penso alla vita di questi uomini provati dallo sforzo, che fissano il vuoto e si riparano dal sole sotto grandi massi. Ci sono lavoratori d’ogni età, qualche donna, ma soprattutto giovani o ragazzi poco più che adolescenti: si fanno tante crociate per i piccoli cucitori di palloni Pakistani e contro le multinazionali produttrici d’abbigliamento sportivo che utilizzano adolescenti rubati alla gioventù, ma di questi sventurati non parla mai nessuno. Per i più fortunati, l’abbigliamento consiste in pesanti tute colore kaki, gli altri indossano consunte giacche a vento, il colore della pelle (diventata nera al contatto con il catrame), li fa assomigliare a “minatori d’alta quota”. Alcuni vivono e dormono vicino al posto di lavoro, in tende costruite con pali, pietre e teloni di colore azzurro. Altri, armati dei loro strumenti di lavoro, partono tutte le mattine dai villaggi d’origine per i cantieri di montagna.

A Darcha hanno controllato i passaporti, il paesaggio è “lunare” e non esistono alberi, ci sono solo montagne, pietraie e un turbinio di sabbia, per il tanto vento, sembra che le nuvole giochino a rincorrersi. Alle sei di sera, dopo avere valicato anche il Baralacha La (4.883 metri) ci siamo fermati in una gran tenda a bere un chai, ho ordinato una omelette, l’ho arrotolata e mangiata in un battibaleno, sarà una frase scontata, ma non so quando avrò ancora occasione di mangiare una crêpe salata a simili altitudini. A notte fonda siamo arrivati alla tendopoli di Sarchu (4.200 metri), dove era prevista la sosta per la notte: il campo era al buio e le tende s’intravedevano solo grazie ai fari del bus. L’aiutante dell’autista, armato di torcia, ci ha scortati fino alle tende, all’interno c’erano dei veri è propri letti. Al tendone mensa ci hanno servito la cena: un pasto frugale consumato in silenzio. Il menu prevedeva una brodaglia con lenticchie e fagioli. Si mangiava a lume di candela, eravamo seduti su delle sdraio da spiaggia, difficili da utilizzare. Sotto un cielo incastonato di stelle sono andato a coricarmi.

Ci hanno svegliato prima dell’alba, oggi valicheremo il Lachlung La (5.060 metri) e il Taglang La (5.328 metri), che rappresentano il tetto del viaggio. La notte ho dormito nel sacco a pelo, all’uscita dalla tenda sono stato aggredito da un vento polare ed è stata un’impresa lavarsi all’aperto, le dita delle mani erano congelate e lo sono ancora adesso mentre scrivo. Sul bus gli indiani erano avvolti in coperte e indossavano passamontagna, gli europei si difendevano dal freddo con piumini e abbigliamento “high tech”. Dopo il sorgere del sole ha iniziato a fare caldo, poiché ero vestito a cipolla (vale a dire a strati), ho iniziato a svestirmi: via la giacca e il maglione, per rimanere in maniche di camicia. Anche il paesaggio è cambiato, percorriamo un altopiano che supera i 5.000 metri d’altezza. Dopo il passaggio sul Lachlung La ci siamo fermati alla tendopoli di Pang per il pranzo, mangiamo su instabili tavolacci, seduti su traballanti sedie: nella scelta fra thuppa o chomin ho scelto i primi. In questo deserto di pietre, tutti n’approfittano per fare i propri bisogni: le donne hanno qualche problema perché non esistono toilette e si vergognano, c’è solo la possibilità di fare un qualche centinaio di metri, accucciarsi e farla davanti a tutti, esperienza per nulla entusiasmante. Una turista tedesca ha chiesto “toilet”, ma non ha capito che i bagni non esistono e le montagne, la sabbia e i sassi sono un unico gabinetto a cielo aperto! La strada è asfaltata in prossimità dei passi, il percorso è disseminato delle carcasse arrugginite dei barili di bitume. Riportarli a valle sarebbe costoso, ma non impossibile, vista la propensione degli indiani a riciclare tutto, a partire dalle bottiglie vuote dell’acqua.

 

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