Ritemprato e rifocillato, sono andato da “Maria Brothers” una libreria definita così dalla L.P.: “Has a fascinating, jumbled collection of antique local books…”. La libreria era fornitissima, sia di vecchi libri sull’India che di mappe dal 1800 al 1950, era un luogo dove ci si poteva perdere per ore fra gli scaffali polverosi. Mi sono indirizzato verso le mappe antiche: il prezzo era indicato con una “A” per le centinaia di rupie e con una “S” per le migliaia, così ad esempio, il prezzo 55A significava 550 rupie, ma io avevo capito il contrario. Felice di potere acquistare qualche vecchia mappa dell’India ad un prezzo conveniente avevo fatto la mia scelta, la mappa però non costava 290 rupie ma ben 2.900. Dopo la richiesta di un “little discount” ho terminato la visita assicurando che la notte mi avrebbe portato consiglio e che forse domani, sarei tornato, salvando così faccia e portafoglio. Dopo l’ennesima passeggiata per le vie di Shimla sono tornato all’ostello: il cielo era finalmente libero dalle nubi, dalla mia camera i puntini bianchi e arancioni delle luci delle case, ricordavano la via lattea che brilla nelle notti invernali.

Alle sei e mezza di mattina siamo partiti per Recong Peo, la capitale del Kinnaur: il bus sembra un giocattolo di latta, le file da cinque posti sono strettissime e non c’è molto spazio per le gambe. A causa della posizione, per la strada, per la mancanza d’adeguante sospensioni e per gli scossoni accentuati ad ogni buca, è impossibile schiacciare un pisolino. Il bigliettaio ha una duplice funzione e oltre a fare i biglietti è munito di fischietto: un fischio ed il bus si ferma, due fischi ed il bus riparte. E’ una figura vitale per l’autista, è il suo terzo occhio, è lui che gli segnala il sopravvenire dei mezzi e che lo guida nell’affrontare le manovre più difficili. Dopo una sosta per una foratura, dove ho mangiato samosa e banane, il paesaggio è iniziato a cambiare: dalle colline siamo passati a montagne brulle di colore ocra. Ci siamo fermati ad un tempio Indù, i passeggeri e l’autista sono scesi a pregare, invece i “meno fedeli” n’approfittano per fumare un bidi (le sigarette indiane dal sapore dolciastro).

Recong Peo

Dopo dieci ore di viaggio siamo arrivati a Recong Peo (2.290 metri), mi sono sistemato al “Fairyland Hotel” e anche qui manca l’acqua. Ho incontrato due italiani, Luca ed Anna che mi hanno avvisato che la strada per Kaza è interrotta a Yangthang (3.650 metri) a causa di una frana, ma con un “trekking”, è possibile aggirare l’ostacolo. Mentre pensavo a questo inconveniente, mi sono addormentato. Ho dormito otto ore, ma avrei continuato a lungo. Recong Peo è talmente piccola che sembra un villaggio in miniatura, è minuscola e dall’alto assomiglia ad un villaggio alpino, solo le case ed i volti ti fanno ricordare che ti trovi sulle pendici Himalayane. Sulla destra, oltre al fiume, si erge maestoso il Kinnaur Kailash (6.050 metri), in questa stagione monsonica non riesci ad ammirarlo nella sua totale bellezza perché è sempre ammantato dalle nubi. Ho preso il bus per Kalpa, sembrava che si dovesse partire, poi l’autista è sceso ed è scomparso, ritardando di mezz’ora la partenza.

Sull’autobus ci sono facce diversissime tra loro: da quelle di donne con tratti somatici da India del Sud, a volti Cinesi, Tibetani, Indoeuropei, c’è anche un gruppo di studenti che indossa divise immacolate con camicia e cravatta. Mi chiedo quanti di questi bambini si vestiranno così nella futura vita lavorativa, magari emigrando verso le megalopoli indiane, e quanti rimarranno qui, a lavorare nei campi. Kalpa è un paese arroccato a 2.960 metri d’altezza, nella mitologia indiana era la casa invernale di Shiva. Nel mese di Magha (Gennaio – Febbraio), gli Dei del Kinnaur si riunivano qui in assemblea. Le case sono di legno e sassi, sono circondato dalle pinete e nell’aria è forte l’odore della resina, la gente è gentile ed ospitale e vive le giornate senza fretta, con un ritmo di vita ancora più lento rispetto a Shimla.

Finalmente sto iniziando a trovare quella “pace interiore”, quella tranquillità, quella voglia di vivere lentamente le fasi della giornata che andavo cercando, senza essere assillato dai ritmi dell’orologio: qui è solo il sole che scandisce il ritmo della giornata. Mi trovo “fuori del mondo”, sembra che il tempo sia “immobile” ed è una gioia per lo spirito, immedesimarsi in questa dimensione ritrovata, soprattutto con una vista che spazia sul Kinnaur Kailash, sul Gompa e sulle sue “bandiere di preghiera” che portano i mantra al cielo. Mentre pensavo al lento scorrere del tempo, ho sentito dei suoni di trombe e tamburi provenire dal Gompa: erano le “prove generali” per una festa che si terrà domani, al vicino villaggio di Kasmir. Ho bevuto un chai con gli abitanti di Kalpa, poi ho deciso che l’indomani non proseguirò per Nako, ma andrò alla festa.

Nel pomeriggio sono tornato a piedi verso Rekong Peo, erano quattordici chilometri di strada, non c’erano né macchine né bus ed era bello camminare per questi boschi. Dopo una decina di chilometri sono arrivato al “Kinnaur Kalachakra Celestial Palace” dal quale si gode una bella vista sulla valle e sulle montagne (nuvole permettendo), a tal proposito la L.P. diceva: “The setting alone is probably worth the trip to Kinnaur”. Il tempio è stato inaugurato nel 1992 dal Dalai Lama, c’è una statua moderna e molto alta del Buddha, che lo fa assomigliare più ad un extraterrestre che ad un asceta. A parte il panorama, il posto non è nulla d’eccezionale, un monaco mi ha offerto un bicchiere di limonata. Ho cenato con “Vegetable fry rice e chiken masala”, alle pareti del locale ci sono poster di cantanti e di star indiane e c’è una raffigurazione di Hanuman, il Dio Scimmia. Da bere ho sostituito una Coca Cola al solito chai, sto pensando ai giorni di viaggio ed alla strada percorsa da questa bottiglia per arrivare qui: il suo inventore ne sarebbe fiero!

Di buon mattino ho preso il bus per Kasmir dove si svolgerà la “mela” (festa), con me c’è Ben, uno Svizzero di Schaffhausen, uno spilungone alto un metro e novanta che sta viaggiando in bicicletta da oltre cinque mesi nelle regioni Himalayane: partito da Srinagar, è sulla via del ritorno per Delhi. Trovare il paese di Kasmir è stata un’impresa, infatti, quando il bus si è fermato, ho visto solo alberi e qualche venditore di frutta. Scendendo per il letto di un fiume in secca, siamo arrivati alla piazza del villaggio: attorno c’era una gran casa, il tempio e qualche venditore, che faceva magri affari. La festa avrà inizio a mezzogiorno, ieri ci avevano assicurato che sarebbe iniziata molto prima, così Ben ed io ci siamo seduti sotto un albero a mangiare prugne selvatiche ed a contemplare la valle del Kinnaur. Verso mezzogiorno è arrivata un po’ di gente, sono arrivati i suonatori con trombe, tamburi, piatti, flauti, campanelle e lunghi tromboni (tipo quelli dei monaci Tibetani).

Alcuni uomini iniziavano a riempire le brocche con un liquore che aveva un odore simile alla vodka, veniva distribuito a tutti e versato nelle mani unite a mo’ di coppa. Gli uomini indossavano l’abito di tutti i giorni che è anche il vestito tradizionale: una giacca di feltro colore panna ed un cappello dello stesso tessuto, con la visiera rivoltata all’insù di colore verde. Le donne invece portavano scialli ricamati con motivi geometrici che ricordano quelli Tibetani, hanno i capelli raccolti in una lunga treccia nascosta dal cappello, identico a quello degli uomini. I suonatori hanno iniziato ad eseguire una nenia monotona e uguale che è andata avanti per una buona mezz’ora, poi hanno smesso di suonare ed a Kasmir è sceso il silenzio. Nell’aria si sentivano solo gli schiamazzi dei bambini che si rincorrevano con le pistole di plastica appena acquistate. Nel premere il grilletto, il tappo in sughero usciva e tentavano di colpire la testa degli amici. Durante la pausa tutti hanno ricominciato a bere direttamente dalle bottiglie, uno dei suonatori mi ha offerto una sorsata di questa “torbida bevanda” e dopo un assaggio, credendo che mi piacesse, me ne ha regalata una bottiglia, l’ho donata ad un indigeno, ricevendo in cambio un cetriolo. Poi sono iniziate le danze: dapprima poche donne ballavano in cerchio, poi la gente è aumentata, venti, trenta, quaranta persone, fino a quando tutti coloro che assistevano, da spettatori sono diventati attori e si sono uniti alle danze. Sono intervenuti anche gli uomini, la danza è diventata collettiva, per ultimi si sono uniti alle danze anche i suonatori. Costoro stavano davanti a tutti, era come se con i lori strumenti e le loro mosse dessero il tempo ed il ritmo: sia per l’alcool ingurgitato che per l’euforia, sembravano in preda ad una trance isterica e nei loro frenetici movimenti investivano la folla degli spettatori. Le danze sono continuate per ore, mi sembrava di essere protagonista di un documentario del “National Geographic”.

Verso l’imbrunire Ben ed io abbiamo abbandonato la festa, dovevamo percorrere i diciassette chilometri che ci separavamo da Recong Peo, dopo un’ora di cammino, un camion ci ha dato un passaggio. Abbiamo cenato al “Chinese restaurant” con spaghetti cinesi fritti, i noodles che in tibetano si chiamano chomin. Nel piatto c’era di tutto: carne, vegetali, ed altri ingredienti che non ho riconosciuto, mangiavamo quasi al buio e si vedeva poco o nulla. L’oste ci ha offerto una tazza di tè al burro. Tornato al “Fairyland Hotel” ho conosciuto una coppia di Inglesi che stava aspettando di avere “l’Inner Line Permit”, il permesso necessario per la “Spiti Valley”: i due saranno costretti a stare a Rekong Peo per quattro giorni. Domani è Venerdì ed inizia il lungo week-end di chiusura degli uffici pubblici. Per fortuna che al mio “permit” ci avevo pensato a Shimla! Mi sono svegliato all’alba ed ho raggiunto la stazione dei bus con il “taxi – jeep” dell’albergo, non avevo voglia di fare a piedi più di tre chilometri di salita  per  arrivare alla “upper bus station”.

 

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