Dal freddo pungente di stanotte siamo passati, in meno di tre ore, ad un caldo Sahariano, è in corso una spaventosa inversione termica. Le foreste d’abeti si sono sostituite alle brulle montagne Ladakhe e dopo Khoksar abbiamo aggredito i primi tornanti del passo Rothang. E’ l’ultima volta che percorro questa salita che sembra non finire mai (è la quarta volta in quindici giorni), la sua cima, come il Parnaso (la montagna sacra per gli antichi Greci), è avvolta nelle nubi. Una “Maruti”, nella discesa verso Manali è finita fuori strada ed ha centrato un albero, è uno spettacolo comune. Spesso si vedono carcasse d’autocisterne o camion accartocciati come pacchetti di sigarette che rimarranno in fondo ai precipizi o sul greto dei torrenti, fino a quando non saranno corrosi dalla ruggine.

Manali

Dopo 222 chilometri e dieci ore e mezza di viaggio, ecco Manali. Per la notte ho scelto l’Hotel Mona Lisa, con TV in bianco e nero, acqua calda (da verificare), copriletto quasi immacolato e lenzuola sporche. Manali, dopo la parentesi Ladakha sembra un miraggio: la città trabocca di pasticcerie che vendono ogni ben di Dio, dai dolci con forme geometriche e dai sapori sconosciuti, a torte con la glassa azzurra e verde pisello. Ci sono gli “autorickshaw” che tanto mi mancavano, drogherie, un enorme bazar con negozi che offrono le stesse merci e non si capisce come i proprietari riescano a sopravvivere.

Ho festeggiato il ritorno alla civiltà con l’acquisto del giornale “The Sunday Tribune”, con una rasatura dal barbiere e con una cena al ristorante cinese “Mount View”, dove ho bevuto una gasatissima soda. Manali è brulicante di gente: per le strade ci sono Sadu, mucche sacre e persone, la cui attività principale sembra quella di non fare nulla, indiani in vacanza, coppiette in luna di miele, questuanti, turisti in partenza per i “trekking” nella valle, viaggiatori in transito per Leh o per la Spiti Valley, stranieri alla ricerca di “paradisi artificiali”. Seduto sotto la statua di Nehru (uno dei Padri fondatori dell’India), sto osservando la saga quotidiana di questo popolo costretto a vivere la sua “statica situazione” senza mai poterla né volerla cambiare. Ho fatto colazione con pane e “Nutella”, quando mi hanno portato il chapati, ho iniziato a spalmarla su una grossa frittella fumante. Il chapati era piccante, quest’accoppiata ha rappresentato una disgustosa colazione.

Dopo qualche acquisto lungo il “Mall” e al Bazar, ho preso il bus per Delhi. Guardare fuori del finestrino, è un po’ come osservare il mondo da una “gabbia dorata”: scorrono davanti agli occhi le grandi e piccole miserie dell’India. Regna un caos primordiale: ci sono i “bus giocattolo” che mi hanno accompagnato in tre settimane di viaggio, un camion che trasporta polli ammassati in modo inverosimile, venditori di frutta quasi marcia, indiani che si godono il via vai di questo caravanserraglio, tanti mendicanti, e tutto attorno, montagne cariche di nubi che fra poco regaleranno una spruzzata di pioggia.

Alle cinque siamo partiti in perfetto orario, ma subito ci siamo fermati: un trattore ha urtato un autobus, il contatto ha provocato un graffio nella carrozzeria del bus e c’è stato il blocco totale della circolazione. Il proprietario di un negozietto osserva la scena bevendo il suo chai, un centinaio di curiosi si accalcano attorno ai due conducenti che confabulano animatamente. La sosta forzata ha creato un ingorgo pazzesco, bus e camion sono affiancati in ambo le direzioni, non ci si muove più e la situazione sembra inestricabile. E’ un “affresco” tipicamente indiano: per evitare quest’ingorgo sarebbe bastato che i due litiganti avessero accostato i mezzi sul ciglio della strada, ma sarebbe stato troppo semplice. In questa “selva” di mezzi motorizzati non esiste un varco, forse uno spillo ci passerebbe ma non una bicicletta. Nessuno protesta, è un segno dell’ineluttabilità del destino, un comportamento normale nella mentalità Indù, anche io inizio ad abituarmi. In Italia un simile ingorgo avrebbe provocato un concerto di clacson impazziti, come durante i festeggiamenti per una vittoria della Nazionale di calcio.

Caldo ed umidità si fanno sentire, dopo più di un’ora abbiamo iniziato a muoverci lentamente. Sulla strada vige la legge del più forte: c’è un uso indiscriminato di trombe e clacson e la precedenza è accordata ai mezzi più grandi. Abbiamo cenato in un dhaba (snack bar) disperso fra le “hills”, il tratto di strada da Manali a Kullu sembra più pericoloso dei tornanti del Kunzum La, gli incontri ravvicinati con bus ed autocarri provenienti dalla direzione opposta sono continui. L’utilizzo dei fari è un tabù fino a notte fonda, gli “autorickshaw” e i camion sono parcheggiati in mezzo alla strada anche di notte, mentre intere famiglie stanno sedute sul ciglio della strada, rischiando di essere investite. La notte è trascorsa veloce, in un continuo dormiveglia che non si è mai tramutato in sonno profondo.

All’alba eravamo fermi e incolonnati nella campagna del Punjab ed il pallido sole che stava nascendo, era il preludio di una feroce e infuocata giornata. La temperatura è cambiata e le fresche notti Himalayane restano un ricordo. I vestiti appiccicaticci, ti regalano un’umida e sgradevole sensazione di sporco. Ogni volta che si riparte, l’autista suona il clacson e ci fa salire, ci sediamo ai nostri posti, ma la speranza di riprendere il cammino si smorza subito, si percorre qualche metro e ci si ferma. Per qualche ora siamo andati avanti così, a salire ed a ridiscendere dall’autobus, fuori c’è un silenzio di tomba, nessuno suona il clacson o protesta.

Continuo a guardare l’orologio, le cinque del pomeriggio sono lontane, come Delhi e l’Indira Gandhi Airport, dove mi aspetta il volo per la Thailandia. Sono quattro giorni che viaggio in autobus, nonostante i calcoli sulle coincidenze fra bus e aerei, raggiungere l’aeroporto sembra una chimera. Dopo quattro ore, la fila causata da un incidente si è dissolta e abbiamo ricominciato a muoverci. Per il traffico, con gli “autorickshaw” e gli autobus che si rincorrevano fra loro, sembrava che tutti gli abitanti dell’India si dirigessero verso la capitale. Quando è iniziata l’interminabile periferia di Delhi, c’erano masse di diseredati che rovistavano come avvoltoi nella spazzatura appena scaricata dai camion, gente stipata su camion e aggrappata ad ogni appiglio come se fosse ancorata ad una scialuppa che stava per affondare, venditori che non avevano altro da offrire che due o tre pannocchie male abbrustolite, altri che vendevano acqua e un bicchiere costava mezza rupia (cinquanta paisa).

Dopo ventuno ore, invece delle quindici preventivate siamo arrivati a “Connaught Place”, appena sceso dal bus ho fermato un “autorickshaw” e sono partito per l’aeroporto. Questi mezzi a tre ruote dipinti di giallo e nero, somigliano ad api ronzanti e dopo un po’ diventano “roventi”, infatti, la carrozzeria si scalda così tanto da tormentare sia i piedi che il sedere. Sono arrivato in aeroporto a meno di due ore dalla partenza, dopo avere ottenuto la carta d’imbarco, ho iniziato le ultime operazioni che accompagnano ogni addio all’India. Dapprima ho fatto una coda interminabile per il controllo del passaporto e mi hanno fatto un timbro sia sul passaporto che sulla carta d’imbarco. Ho fatto una seconda fila alla dogana e ho ricevuto un secondo timbro sulla carta d’imbarco, poi un “security chek”, seguito da un terzo timbro sia sulla carta d’imbarco che sul cartellino “Air India” del bagaglio a mano, con una perquisizione sia corporale che del bagaglio. Poi ancora un controllo, per assicurarsi che su ogni carta d’imbarco ci fossero i tre timbri, pena la condanna ad essere rispediti indietro. Infine, prima di salire a bordo, c’è stato un ultimo controllo per vedere, ancora una volta, se c’erano tutti e tre. E finalmente sono salito sul Boeing 747 dell’Air India. Mentre sorseggiavo un succo di mango siamo decollati, destinazione Bangkok, ma questa è tutta un’altra storia.

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