C’erano bottiglie di grappa con serpenti in bottiglia, pelli di serpente, pillole di serpente, ampolle di vetro con serpenti aggrovigliati, in un ristorante un cartello diceva che i serpenti non erano animali protetti e s’invitavano gli avventori all’assaggio. Oltre a serpenti di tutte “le taglie” ho visto maiali e cinghiali in gabbia pronti per gli spiedi, conigli, tartarughe vive o scuoiate, ma anche venditori d’altri cibi, “sexy shop”, creme e pozioni per accrescere il potere sessuale, locali specializzati nel massaggio ai piedi, locali per il gioco d’azzardo (al posto delle fiches c’erano stecche e pacchetti di sigarette), indovini, esperti di tatuaggi e bordelli nelle strette e buie vie laterali. Per i cinesi la carne di serpente è un potente afrodisiaco, ecco perché c’è l’accostamento fra cibo e “case di piacere”.

Stasera non provavo interesse nemmeno per il cibo, provavo nausea nel vedere gli spaghetti di riso, il tofu, l’anatra e il maiale alla griglia, mi sono accontentato di alcuni dolci a forma di grossa pastiglia, erano buoni, ma avevano uno strano sapore. Sono tornato all’ostello con la speranza di ritrovare letto e zaino, in ogni caso possedevo “l’arma segreta”, la chiave del portone. L’ostello è una gran casa accogliente ed è strutturato su diversi piani, ci sono tante stanze comunicanti con letti a castello, l’unico problema è il bagno, ce n’è solo uno per piano e l’attesa è lunga. L’interno è particolare, con marmi neri e sanitari colore vinaccia e la vasca sarebbe stretta anche per un cinese. Nell’anticamera c’è un frigorifero per gli ospiti che contiene marmellate, strane salse e involucri misteriosi.

Alla mattina ho pagato tre pernottamenti a Mr. Lee, il manager dell’ostello, poi mi sono immerso nel traffico e nello smog della città. Sono affamato, già stanotte dopo l’iniziale disgusto per il cibo cinese, lo stomaco era assalito dai crampi della fame: ho festeggiato il rinato amore per la cucina cinese con wonton al vapore. A quest’ora impiegati e studenti affollano minuscoli negozietti, tutti fanno colazione o comprano spuntini per la mattinata. Si vendono hamburger e crêpe salate, i cuochi lavorano ad un ritmo infernale, sembra una catena di montaggio: c’è chi taglia i panini, chi imburra, chi cucina sulla piastra, chi prepara i sacchetti, tutto avviene ad un ritmo frenetico senza interruzioni, come in un thriller mozzafiato.

Scendono sottili gocce di pioggia, con il “MRT” sono andato al mausoleo di Chiang Kaishek, che si trova in un’enorme piazza (il “Generalissimo” non è sepolto qui, la sua tomba si trova nell’ex residenza nei dintorni di Taipei). Sul fondo c’è il mausoleo a forma di pagoda bianca con il tetto in maiolica blu, ai lati ci sono il palazzo dei concerti ed il teatro nazionale. I tre edifici in stile classico cinese svettano tra i grattacieli che assediano la piazza, sembra un miracolo trovare un tale spazio aperto nel centro di Taipei. Tre reparti dell’esercito si stanno preparando per la festa nazionale del dieci ottobre, suonano e sfilano a passo di marcia, peccato non esserci. Sotto le colonne rosse del teatro nazionale alcune persone mimano il “taijiquan” (la danza delle ombre), altre fendono l’aria con le spade e sfidano l’ignoto, altre ancora hanno con sé grossi registratori che diffondono musica, le coppie di ballerini n’approfittano e si esercitano.

Chiang Kaishek partecipò alla rivoluzione del 1911, fu capo di stato maggiore nel governo del Dr. Sun Yatsen e diventò il massimo esponente del partito del Kuomintang. Entrato in contrasto con i comunisti, costituì a Nanchino, nel 1927, il governo nazionalista. Dopo lo scoppio del conflitto Cino – Giapponese e l’occupazione della Manciuria del 1931, fu costretto, nel 1941, ad accettare la collaborazione comunista per resistere all’avanzata giapponese. Fu eletto presidente della Cina nel 1943 e nonostante le lotte tra il Partito Comunista e il Kuomintang fu riconfermato in carica nel 1948. Dopo l’ascesa al potere di Mao Tse-Tung, si rifugiò a Taiwan, nel 1949, con un milione e mezzo di Cinesi. Nel 1950 diventò presidente della Cina Nazionalista e rimase in carica fino alla morte, avvenuta del 1975 all’età di ottantasette anni, gli succedette il figlio Chiang Chingkuo.

Sono entrato nel mausoleo che è stato inaugurato il cinque aprile 1980 in occasione del quinto anniversario della sua morte, è alto settanta metri e occupa un’area di 250.000 metri quadrati, all’interno c’è una grande statua del “Generalissimo” del peso di venticinque tonnellate, le pareti sono in marmo e il pavimento è coperto da tappeti rossi. Alcune iscrizioni dicono: “Etica, democrazia, scienza, l’essenza dei tre principi del Popolo e del credo politico di Chiang Kaishek”, e ancora “La vita deve promuovere il sostentamento dell’umanità e dell’universo”. Ai lati, due soldati in divisa bianca stanno sempre sull’attenti, c’è una persona addetta esclusivamente a loro, che ad intervalli, si avvicina e sistema l’abito, le spalline, i guanti e l’elmetto. Questa tortura “dell’immobilità totale” dura due ore e finisce con il cambio della guardia. Ho assistito alla cerimonia, il picchetto si muoveva ad un’andatura innaturale e forzata, le guardie facevano roteare il fucile con la baionetta innestata, più che ad una “cerimonia” sembrava di assistere ad un’attrazione circense. Ai piani inferiori c’era un’esposizione di memorabilia, d’oggetti posseduti dal “Generalissimo”: automobili, foto, lettere autografe, vestiti, divise colore verde oliva, bandiere, era un tuffo nel passato. In alcune stanze c’erano mazzi di fiori freschi, in una avevano ricostruito lo studio dove lavorava Chiang Kaishek, un “Generalissimo” di cera sorrideva seduto dietro la scrivania, la prima sensazione era di vederlo vivo in carne ed ossa!

In un ristorantino ho mangiato anatra con riso e verdure, gli avventori sono intenti a leggere giornali a fumetti messi a disposizione dal proprietario, sono così concentrati che sembrano preferire la lettura al pranzo. Sono poi andato al giardino botanico, è decadente, mal tenuto ed in rifacimento, solo il grosso stagno è degno di nota, tutto ricoperto da un tappeto di giganteschi fiori di loto. La corolla di questi fiori è commestibile, l’ho vista vendere sui banchi dei mercati. Con il “MTR” sono sceso alla fermata di ChungHsiao Road, nella piazza sorge il monumento eretto in onore del Dr. Sun Yatsen, l’eroe e il padre della Cina moderna, eletto presidente della Repubblica nel 1911 dopo l’abdicazione dell’imperatore Pu Yi, personaggio “venerato” sia dal Partito Comunista Cinese sia dal partito del Kuomintang di Taiwan. Entrambi i Paesi lo ritengono il fondatore della Cina moderna e rappresenta l’unico comune denominatore tra i due governi. La sua statua si trova all’interno di una costruzione in cemento grigio a forma di pagoda realizzata negli anni sessanta, è un brutto edificio che ricorda i “santuari” dell’ex impero sovietico.

Dopo il consueto appuntamento con i personal computer del “Nova Computer Arcade” ho ripreso il “MRT”, alcuni cartelli ricordano che chi è trovato nelle stazioni o sulle carrozze a mangiare o a masticare chewing-gum è pesantemente multato. Anche qui tutti sembrano “schiavi” dei telefoni cellulari, i più giovani lo portano al collo, appeso ad un cordone colorato. Sono sceso alla fermata di Chihsian per visitare il mercato notturno di Shihlin, è un posto enorme che si sviluppa per una lunga via e nelle strade laterali: si vendono oggetti vari, pupazzi, accessori per telefoni cellulari, ma anche abbigliamento e tanto cibo. Sono stato colpito dai venditori abusivi che sostavano al centro della via principale o sotto i portici. Se avevano il sentore dell’arrivo della polizia, richiudevano la mercanzia all’interno di grandi lenzuola, occultandola nei negozi “regolari” (c’era una strana solidarietà e complicità fra venditori regolari ed abusivi). Sembrava di assistere al “fuggi fuggi” che c’è in Italia quando i venditori extracomunitari devono fuggire dai vigili urbani. La folla affollava le vie e si faceva fatica a camminare.

Per cena ho fatto tanti piccoli assaggi: una pannocchia con dentro un salsicciotto, wonton al vapore, un grosso raviolo ripieno di carne e da bere una limonata dolcissima, ma rimpiangevo un rinfrescante ”tè verde” ghiacciato! Oggi ho conosciuto Yuko, una commessa di un negozio di pittura dove non si vendono vernici ma pennelli e tavolette d’inchiostro di china (da strofinare con un po’ d’acqua contro le pietre intagliate che fanno da tavolozza). Stiamo parlando della “pittura classica” che è l’arte di scrivere frasi composte da ideogrammi: avere una bella calligrafia è sinonimo d’armonia. Questa è l’arte della linea e della pennellata secca, disadorna ed evidente, basata sul bianco e nero dove gli altri colori non esistono. I “maubi” (pennelli) sono in bambù e la punta è fatta di setole di maiale. Yuko ha dipinto per me i numeri dall’uno al dieci in caratteri cinesi, è bello osservare come il pennello è tenuto tra le sue mani e come prendono forma i vari caratteri.

Tornato in ostello ho conosciuto una giapponese di nome Michiko, mi ha parlato dell’Italia e del nostro cibo, del suo amore per il prosciutto crudo e per il formaggio parmigiano, le ho dato il mio indirizzo di posta elettronica dicendole di scrivermi pure quando verrà nel Bel Paese, magari prima o poi la ritroverò davanti al portone di casa! All’ostello, la “comunità” più presente è quella dei canadesi, all’una di notte stanno ancora banchettando con cioccolata e patate fritte.

All’indomani ho fatto colazione con un’omelette e una fetta di carne, volevo un hamburger ma non mi sono capito con chi ha preso l’ordinazione, poi ho cambiato alcuni traveller’s chèque alla Banca di Taiwan situata davanti al palazzo presidenziale, un edificio in mattoni rossi in stile Vittoriano. Ho preso il bus per Wulai, un paesino di collina che dista una trentina di chilometri da Taipei, famoso per le cascate e per le sorgenti d’acqua calda, ormai non più utilizzabili perché “espropriate” dagli alberghi che le hanno “privatizzate”. La fermata del bus è nei pressi del “Parco della Pace”, solo dopo avere interpellato una quindicina di persone ho trovato quello giusto, ma quanta fatica! Il viaggio è durato un’ora e in poco tempo sono sparite le brutture architettoniche e il cemento di questa città da tre milioni d’abitanti. Abbiamo iniziato a salire su per le colline: nella valle scorre il fiume Nanshih utilizzato in più punti per creare energia elettrica. Nei pressi di Wulai il fiume ha un bel colore verde smeraldo con riflessi blu, sulle due rive c’è chi pesca e chi mangia all’ombra d’enormi massi, questa è una scena che non mi sarei aspettato nei dintorni di Taipei.

Ci sono tanti ristoranti specializzati nel cucinare gamberi e pesci di fiume, le bancarelle invece, vendono funghi di montagna, strani tuberi e grappe “casalinghe”: ero attratto da quella con spicchi d’aglio, gamberetti, bacche e radici, l’avrei voluta comprare ma costava un po’ troppo, per una bottiglia che avrei utilizzato come soprammobile! Ho preso un piccolo treno elettrico che arriva fino alla stazione di partenza della funivia, situata in un posto chiamato “Giardino del Limpido Corso”, la vista spazia sulla valle e una cascata d’acqua precipita in una profonda gola rocciosa. Con la telecabina si giunge a “Dreamland”, un parco giochi simile ad una Disneyland degli anni sessanta, perché gli autoscontri, le giostre e le altre attrazioni sono tutte “datate”, non sono tecnologiche e non snaturano nemmeno il contesto ambientale. La natura è rigogliosissima e il parco con le piante tropicali, i laghetti e le cascate è ben curato. E’ una giusta pausa dopo il caos della capitale.

Wulai è stata una vera sorpresa, forse perché come alle gole di Taroko ci sono stato in un giorno infrasettimanale. Oggi è un posto tranquillo, ma nei fine settimana, il luogo diventa una Rimini agostana. Sulla via del ritorno ho conosciuto una ragazza di Taoyuan di nome Minnie, un po’ svampita come il personaggio del fumetto di Walt Disney e una canadese di nome Roona. A Taipei sono salito al ventisettesimo piano del “Mitsuchoski Department Store” per vedere il tramonto: la città dall’alto è impressionante. Sono entrato in un ristorante self service: nulla di quello che ho assaggiato mi ha soddisfatto, la cosa che ho apprezzato maggiormente è stato il brodo che sostituiva il tè (nel locale non c’era acqua da bere). Sono entrato in un negozio di CD enorme e fornitissimo, le copertine degli album erano in cinese e dopo un po’ sono uscito, sia per l’impossibilità di leggere i titoli, sia per l’enorme quantità di materiale: questi megastore vanno presi a piccole dosi.

Quando mi è tornata fame non ho resistito alle tentazioni di un negozio di sushi che vendeva pesce fresco, servito su bocconcini di riso avvolti in foglie d’alga nori. I prezzi erano popolari: c’erano sushi con tonno, salmone, uova colorate e pesci sconosciuti, tutto era buono ma c’era troppo riso e le salse alla soia avevano sapori troppo decisi. Dopo avere mandato e-mail dai computer del “Nova Computer Arcade” sono andato con il “MRT” al mercato notturno di Tihua, qui le bancarelle vendevano solo cibo, era un’orgia d’odori, sapori e colori: si potevano trovare tutte le specialità di Taiwan. Ormai ero sazio e mi sono limitato a guardare malinconicamente tutto quel ben di Dio, rammaricandomi per le “nefandezze alimentari” che avevo ingurgitato stasera.

Sono passato davanti ad un negozio specializzato in granite alla frutta candita e sciroppata e sono entrato: le macchine trita ghiaccio funzionavano senza sosta e sembrava di mangiare neve appena caduta, tutto di un tratto mi sono sentito come un bambino davanti alla magia della neve. Sono tornato in ostello, i piedi mi facevano male ed ero stanco e sudato. La serata è terminata sotto la doccia: avevo progettato di passare le notti della capitale in locali alla moda come il “Kiss la Boca”, il “@Live” o il “Fever”.  Voglio sempre vedere tutto senza fermarmi un attimo, è come se volessi “assorbire” e penetrare nell’anima della città, non riesco mai a scendere a compromessi.

 

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