Sono andato a vedere un fenomeno geologico chiamato “Chuhuo” che letteralmente significa “fuoco che viene fuori”:dal sottosuolo fuoriesce del gas naturale che forma piccoli fuochi che sembrano spuntare dal nulla. Le fiamme si propagano in un recinto rotondo, ci sono tante bolle che salgono in superficie e sembra di stare davanti ad un’enorme pizza, l’odore è quello dello zolfo, ma non c’è nessun sentore di mozzarella o di pomodoro. Ho camminato a lungo per trovare questo posto, l’opuscolo illustrativo diceva che era solo a cento metri dalla porta est, ma forse nessuno prevedeva che qualcuno lo raggiungesse a piedi! Mi sono fermato in un ristorantino a mangiare spaghetti di riso in brodo con carne e germogli di bambù, il locale è vecchio e tenuto male e gli avventori sono curvi sulle ciotole. Osservo l’anziana donna che lavora la pasta, il fumo che esce dalle grosse pentole ricorda una scena d’altri tempi. Ho comprato anche due ali di pollo fritte e patate dal gusto inusuale, erano patate dolci.

Tornato a Kenting ho passato il pomeriggio dormendo e dopo cena (si dice così anche se non ho mangiato nulla) sono andato verso un punto panoramico chiamato “La roccia della rana”, nelle vicinanze c’è il “Kenting Youth Activity Centre”, un centro ricreativo per ragazzi in stile classico cinese. Sono stato attirato dalle urla e dagli schiamazzi provenienti dal padiglione centrale: in una grande sala c’erano un centinaio di ragazzi dai quindici ai diciott’anni. Seduti a coppie gli uni di fronte agli altri, facevano delle danze collettive, battendo ritmicamente le mani sui palmi, sulle spalle, sulle ginocchia del compagno, ogni tanto si alzavano, facevano un girotondo e poi il ballo ricominciava. Un uomo con un microfono, un “direttore d’orchestra” li guidava, dava il tempo, cercando di non fare mai scendere il ritmo, ricordava il “guru” di una “convention aziendale” dove tutti devono sentirsi coinvolti al 100% e devono esternare le loro emozioni positive: ero shockato perché in Italia balli simili li fanno i bambini dell’asilo e delle scuole elementari. Questa è una “convention” per formare dei “leader”, così mi ha detto una ragazza del gruppo, penso che possano essere paragonati a delle specie di “capi scout”. I ragazzi più influenti indossano una camicia arancione, alcuni hanno una ricetrasmittente o una bandiera gialla con il simbolo della loro associazione, altri ancora impartiscono ordini: non mi è piaciuto vedere così tante divise e un’organizzazione gerarchica di tipo militare.

Mi viene sempre in mente il Giappone e mi sembra che i Taiwanesi vogliano assomigliare più ai loro coetanei del Sol Levante che ai fratelli della Madrepatria. Lo vedo da tante piccole cose: dalle ragazze in divisa che mi sorridono facendo un piccolo inchino, dal loro abbigliamento e dall’ordine e dalla cura quasi maniacale con cui è tenuto questo posto, dove tutto è asettico, lindo e pulito, non c’è una pietra fuori posto e siepi ed alberi sono tagliati e modellati perfettamente. Ho passeggiato per Kenting, anche stasera la strada principale è sfavillante di luci come una Las Vegas del Sud Est Asiatico, pub e locali sono tristemente vuoti, così ne ho approfittato per comprare e scrivere qualche cartolina che è venduta singolarmente in apposite buste trasparenti affinché non si sciupi. Oggi Chen Li Hao, il mio compagno di camera è tornato a casa e mi ha lasciato un biglietto nel quale si rallegrava per avermi conosciuto.

Taichung

Il giorno successivo, dopo una colazione con “hamburger alla cinese” e tè freddo, ho preso il bus per Kaohsiung, da lì prenderò un treno che in tre ore e mezza mi porterà a Taichung. Alla stazione ho incontrato Gino, un ragazzo che lavorava al “McDonald’s” di Kenting, abbiamo parlato per più di un’ora: mi ha detto che è contento della sua vita e della classe politica di Taiwan. Alla mia domanda sulla possibile riunificazione con la Cina mi ha risposto che sarebbe una bella cosa, ma per il momento la ritiene impossibile e ha concluso dicendo: “Nella Mainland non c’è democrazia”. A Taichung ho trovato alloggio al “First Hotel”, sono andato ad ispezionare la camera e l’ho subito presa, solo quando mi sono insediato ho notato che era indecente: l’acqua non scendeva dal rubinetto, se tiravo lo sciacquone si allagava il pavimento, lenzuola e cuscino puzzavano di piscio. Domani cercherò un’altra sistemazione, solo la vasca da bagno di marmo era degna di nota, formata da un’infinità di sassi colorati, sembrava un pezzo d’antiquariato!

Ho iniziato a camminare per le vie della città sotto una pioggia fine, Taichung significa “Centro di Taiwan” ed è la terza metropoli dell’isola (750.000 abitanti), i lunghi viali sembrano non finire mai, tutti ricchi di negozi e di “shopping center” dalle insegne multicolori. Tutte queste luci ti confondono e quando entri da qualche parte è difficile distinguere il giorno dalla notte, talvolta “il giorno è la notte e la notte è il giorno”: buio e luce sono fattori secondari. Onde e fasci di luci al neon illuminano a giorno ristoranti, sale da gioco e locali KTV. Luci fioche e violente illuminano i mercati notturni, i luoghi d’incontro preferiti dove ci si ritrova al termine della giornata lavorativa: la gente che li affolla li rende vivi e pulsanti. Qui si scambiano quattro chiacchiere, si mangia qualcosa e si fanno acquisti.

Sono entrato in un negozio di computer e per più di un’ora ho mandato messaggi, rispondendo a quelli arrivati alla mia casella di posta elettronica. Questi negozi “tecnologici” con schermi piatti ed al plasma, personal computer e lettori multimediali, hanno un aspetto galvanizzante, è un po’ come annusare la tecnologia e cibarsene. Ci sono tantissimi KTV e MTV, i più grandi si trovano in palazzi enormi e di notte le facciate risplendono di luce. Gli interni sono copie bizzarre della reggia di Versailles o riproduzioni di palazzi della Roma imperiale con marmi, statue, specchi e stucchi. Le sale giochi sono gigantesche, si parte da quelle con innocenti videogiochi che propongono sfide fra auto o incontri di kung fu, per passare a quelle con giochi d’azzardo: majong, bingo, poker, solitari di carte. In alcuni locali si gioca solo a “Pachinko”, i giocatori hanno i tappi alle orecchie e solo dopo un po’ capisci il perché. Nelle macchinette, tipo “slot machines” s’introduce una moneta e iniziano ad uscire un fiume di palline d’acciaio, i giocatori continuano ad inserire monete e le biglie continuano a cadere. A volte si vince, a volte si perde, lo scopo del gioco è di “vincere” il maggiore numero di palline, i “fortunati” raccolgono le biglie in apposite cassette che sono pesate e il loro contenuto è convertito in dollari di Taiwan. Ogni sala ha almeno un centinaio di macchinette e il rumore di migliaia e migliaia di biglie rimbomba nelle orecchie, ho resistito solo cinque minuti.

Agli angoli delle strade ci sono piccoli negozi con una bella ragazza seduta su uno sgabello, quando non vende sigarette o foglie di betel da masticare, legge svogliatamente una rivista o si pittura le unghie, questi negozi sono la versione locale dei “tabaccai” nostrani. Mi dispiace non avere interlocutori per soddisfare tutte le mie curiosità, vorrei un “Cicerone” per porgli mille domande, ma a Taiwan il problema della lingua è quasi insormontabile e talvolta anche avere una semplice informazione è un’impresa. Sono andato a mangiare al mercato notturno di Changhua che si svolge lungo una strada lunghissima con tante bancarelle e ristorantini. Stasera ho abbandonato gli spaghetti di riso per assaggiare cibi misteriosi e dai mille colori: ho scelto una torta salata fatta con tre tipi d’uova sode colorate (bianche, rosse e nere), pollo dal colore rosso fuoco che poggiava su un letto di cavoli, un “salame in gelatina” e verdure bianche e verdi tagliate come se fossero spaghetti, che per la consistenza sembravano pezzi di copertone da auto tagliati finissimi. Ho implorato a lungo una ciotola di riso, per accompagnare queste pietanze affogate nella maionese, paragonabili ad una serie d’antipasti. Continuavo a chiedere “bai fan, bai fan”, ma mi hanno solo portato delle frittelle unte a forma di sigaro che sarebbero l’ideale per una colazione e non per una cena. Ho mangiato poco, ma senza riso tutto era stomachevole. Sono tornato in camera e grazie al ventilatore sono riuscito ad eliminare gli sgradevoli odori che c’erano in stanza, riuscendo anche a dormire quasi decentemente.

Appena sveglio ho cambiato albergo e sono andato al “Fu Hsing” situato davanti alla stazione dei treni, la stanza era decorosa e pulita, ho poi cercato informazioni per raggiungere le gole di Taroko: la “Central Cross Island Highway” chiamata anche “Strada dell’arcobaleno dell’isola del tesoro” è una strada di montagna lunga centonovantacinque chilometri che attraversa l’isola per il lungo, ma non è interamente percorribile. A causa del terremoto del 1998 occorre allungare il percorso e passare per Puli, Wushe e Tayuling. Dopo più di un’ora trascorsa fra richieste d’informazioni e peregrinazioni da una stazione dei bus all’altra ho appurato che esiste un servizio diretto per Tayuling. Ci sono solo tre bus al giorno, il servizio è gratuito per mitigare ai disagi causati dalla chiusura della strada principale. Tutti si sforzano d’essere gentili, alcuni, vedendomi in difficoltà, chiedono se ho bisogno d’aiuto, altri scrivono su un foglio di carta dove devo andare, ma i problemi di comunicazione sono sempre tanti. Oggi è nuvolo, non piove e l’umidità si fa sentire, sono andato al mercato e ho fatto colazione con una zuppa trasparente che conteneva alghe verdi e patate dolci, dall’aspetto assomigliava alla “mucillagine” che aveva reso famoso il Mare Adriatico qualche anno fa. Mi sto abituando a mangiare come i locali, ormai fare colazione con una tazza di latte o con un piatto di spaghetti di riso non fa più alcuna differenza.

Qui, differentemente dalla Madrepatria nessuno cerca di applicare il doppio prezzo, sia nei ristorantini sia acquistando cibo dalle bancarelle, paghi sempre il prezzo “reale”, in Cina invece, cercavano di farti pagare il prezzo “per turisti” ed era una lotta feroce ottenere quello corretto, ricordo un viaggio in bus dove mi avevano applicato una “tariffa personalizzata”, avevo replicato affermando che questo era un “sistema mafioso” e la frase aveva provocato un acceso dibattito tra i passeggeri, alla fine il bigliettaio mi aveva restituito la somma pagata in più! Ha iniziato a diluviare e sono andato al giardino botanico che si trova sotto un’enorme cupola trasparente ed avveniristica dove è stata ricostruita una foresta tropicale con ruscelli e cascate, ci sono più di settecentocinquanta piante e la vegetazione è presentata in relazione alle varie aree dell’isola. Ho conosciuto una guida del giardino botanico e una sua amica di nome Jine, la prima parlava solo cinese e spiegava le caratteristiche delle piante all’amica che poi traduceva per me. Abbiamo iniziato a parlare della vita di tutti i giorni, Jine mi ha spiegato che per chi lavora negli uffici la settimana lavorativa è passata da sei a cinque giorni, era costernata perché non sapeva che farsene di tutto questo tempo libero, che il tè verde proviene dal Giappone e gli isolani preferiscono quello locale che è scuro, che i Giapponesi accorrono numerosi a Taichung per i prezzi più convenienti rispetto al loro Paese e che nei locali KTV amano cantare davanti ad un vasto pubblico, mentre i Taiwanesi preferiscono farlo di fronte ad un gruppo ristretto di persone. Ho assaggiato un tè alla vaniglia con palline di caramello che navigavano sul fondo del bicchiere, per poterle aspirare si utilizza un’enorme cannuccia, è buono e Jine mi ha detto che i Taiwanesi ne vanno pazzi.

Sono poi stato al Museo Nazionale della Scienza, reputato come il migliore dell’isola, il posto diverte i bambini che corrono da tutte le parti, ci sono intere sezioni dedicate a loro con animazioni e giochi. Venire in gita con i figli al museo e concludere la giornata da “McDonald’s” sembra una soluzione perfetta per un sabato piovoso come questo, ho visitato con interesse le sezioni sull’arte cinese, sulla medicina tradizionale, sul taoismo e sulle popolazioni aborigene dell’isola, tutto era interessante e ben predisposto, ma c’erano poche didascalie in inglese. In taxi mi sono fatto portare al “Tempio di Confucio”, è immenso e coloratissimo ed è riuscito a ritagliarsi il suo spazio vitale tra palazzi e grattacieli che lo assediano da tutti i lati, è un posto pacifico e incuriosisce vedere i tetti a pagoda in questa “selva di cemento”. In tutte le città dell’isola c’è sempre un tempio dedicato a Confucio, quello di Taichung si distingue dagli altri per il disegno del tetto, le cui curve invece di puntare verso il cielo si piegano verso la terra (terra e cielo erano l’interesse del grande filosofo cinese).

Affiancato al tempio c’è lo stadio, sulla pista d’atletica qualcuno corre, ma i più vanno a piedi nudi sulla pista in tartan, in una sala interna delle ragazze si esercitano in una danza, si muovono lentamente e brandiscono un ventaglio rosso come se fosse una spada, come sottofondo c’è della musica classica cinese. Volevo andare al tempio Paochueh ma ho visto che l’illuminazione dello stadio del baseball era accesa ed ho deciso di dare un’occhiata. C’era una partita della massima lega nazionale che è composta da sole quattro squadre, l’ingresso alle curve era gratuito, mi hanno spiegato che se non facessero così, nessuno verrebbe a vedere le partite (a causa della recessione economica), ma nonostante l’espediente, lo stadio era vuoto. Nel frattempo ha iniziato a piovere e hanno posticipato l’inizio dell’incontro, me ne sono andato e così non saprò mai se avrei provato feeling per questo sport!

 

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