In poco tempo abbiamo iniziato ad insinuarci per colline e montagne ricoperte da una lussureggiante vegetazione tropicale con palme e piantagioni di mele e pesche: per i contadini locali questo è il loro “oro nero”. Le coltivazioni sono ordinate in filari come se fossero vigneti, alcuni alberi assomigliano a dei bonsai ed è coltivato ogni tipo di terreno: pianure, colline, ripidi pendii. La frutta era venduta all’entrata delle fattorie, c’erano soprattutto pesche, vendute in buffe confezioni regalo, simili a scatole di cioccolatini o caramelle: ogni frutto era protetto da un involucro di gommapiuma.

Ad una sosta ho comprato della frutta disidratata che è un prodotto tipico del luogo, c’era una grande varietà ed ho scelto a caso, i frutti erano impacchettati ad uno ad uno. Degne d’essere menzionate erano delle prugne rosse colore porpora, per il gusto assomigliavano a mostarda piccante, ne assaggi una e non ne dimentichi più il sapore per tutta la tua vita terrena, avevano un sapore “semidisgustoso” e indefinibile. Ho comprato anche dei frutti verdi dal gusto di caramella gommosa con all’interno una farina di colore giallo, non ho idea di cosa abbia mangiato. Questo è un’altra conferma dei gusti forti e decisi che caratterizzano il Paese, mi sforzo di assaggiare tutto e di fare nuove scoperte, però “barriere culinarie” così “invalicabili” non le avevo vissute nemmeno in Cina. Qui anche i sapori sono in sintonia col Paese del Sol Levante.

Le montagne sono sempre più alte e spesso attraversiamo formazioni di nuvole basse (passiamo attraverso ad un “oceano di nubi” come direbbero qui). La visione del sole che fa capolino tra le nuvole, è uno degli spettacoli più ambiti dagli isolani, da vivere rigorosamente all’alba. I cinesi pensano che nuvole e pioggia rappresentino l’unione tra Cielo e Terra, ma ritengono anche che il movimento delle nebbie montane possieda uno straordinario potere curativo dovuto all’alta concentrazione del “chi”: chi in cinese significa “forza ed energia vitale” ed è il concetto su cui si fonda la medicina tradizionale. Si pensa che il chi più potente si formi nell’atmosfera, la nebbia che ammanta le montagne è come la panna che galleggia sul latte e simboleggia l’essenza vitale, creata nel congiungimento tra Cielo e Terra. Sopra i duemila metri la vegetazione è fitta e impenetrabile con alberi di bambù, cipressi, ginepri, abeti e pini, sopra i tremila è sempre brulla e c’è solo qualche pino.

Sono stupito per questo paesaggio, fino ad ieri avevo visto solo pianura e cemento, in realtà c’è ben poco da stupirsi perché le cime che superano i tremila metri sono una settantina e pochissime scendono al disotto dei duemila ottocento metri, la montagna più alta, lo Yushan (Montagna di Giada) è alta 3.952 metri, seconda per altezza solo alle vette delle regioni Himalayane. Siamo transitati per il passo Wuling (3.275 metri) ed in cinque ore siamo arrivati a Tayuling (2.600 metri). A causa dell’interruzione della “Central Cross Island Highway” il bus ha continuato per Lishan, così ho aspettato una coincidenza per Tienhsiang. I volti delle persone sono cambiati, facce rudi scavate dal sole e dal vento, come si addice a dei contadini di montagna, però più che a Taiwan sembra di essere in una zona Tibetana. Quattro ragazzi diretti a Hualien si sono offerti di darmi un passaggio, ho accettato con entusiasmo perché per oltre un’ora avevo visto solo qualche rara macchina, il guidatore conduceva l’auto in modo spericolato su queste strade strette, rese viscide dalla pioggia finissima e dai banchi di nebbia che continuavano ad andare ed a venire. Alcune gallerie erano a senso unico e il “driver kamikaze” si divertiva ad imboccarle alla massima velocità, spesso c’erano interruzioni per frane e gli uomini del Genio Civile lavoravano con ruspe e badili per permettere il transito.

Tienhsiang

In due ore sono arrivato a Tienhsiang, un paese minuscolo che si trova all’interno del Parco Nazionale di Taroko (la principale attrazione dell’isola) che gravita attorno ad un enorme parcheggio: ci sono un albergo “cinque stelle”, la posta, tre ristorantini ed il “Catholic Hostel” dove ho trovato una camera. All’imbrunire il paesino piomba nell’oscurità più assoluta, ho mangiato spaghetti di riso e verdure (alghe, bambù ed altre verzure non identificate), non c’era niente di meglio, a parte il “Grand Formosa Hotel”! Con l’aiuto della pila sono tornato all’ostello, le uniche luci sono quelle di una pagoda illuminata, mi trovo in un luogo isolato che invita alla meditazione. Ho dormito saporitamente, alla mattina ero pronto per il bus che mi porterà a Taroko (diciannove chilometri da Tienhsiang), il cielo è blu e non è umido, mi mancano scarpe e zaino da montagna, potrei partire per un’escursione alpestre!

Per colazione niente muesli, ma un piatto scotto di spaghetti di riso fumanti, sono sempre più abituato a queste “strane” colazioni e lo trovo normale. L’impeto delle acque del fiume Liwu (Fiume delle Nebbie) ha scavato un canyon racchiuso da strette pareti verticali in roccia e marmo e la strada è scavata nella roccia. Da Tienhsiang a Taroko ci sono trentotto gallerie, è un percorso strappato alla montagna con difficoltà e i gli occhi guardano preoccupati i precipizi e i dirupi che mi separano dal fondovalle. I lavori di costruzione iniziarono nel 1956 e costarono più di venti milioni di Euro, per portarla a termine, persero la vita quattrocentocinquanta persone. La strada si collega con la “Central Cross Island Highway” (ora in parte chiusa dopo il terremoto del 1998) e permette di fare il “coast to coast” dell’isola. Durante i lavori furono trovati dei giacimenti di marmo, una ricchezza insperata per questa regione, il loro sfruttamento mette in pericolo l’ecosistema della zona, l’integrità del Parco e il territorio degli Atayal, una delle ultime tribù aborigene dell’isola.

Dopo una visita alla sede del Parco, mi sono incamminato verso Tienhsiang, fermandomi al tempio di Changhun, fatto erigere per ricordare i lavoratori che perirono nella costruzione della strada, il percorso è una salita a zig zag lungo il fianco della montagna, non c’è un sentiero, ma una gradinata di pietre che si snoda tra pagode bianche con i tetti rossi. In cima c’è una bella vista, si sente solo il gorgogliare del fiume Liwu, il rumore del vento, il canto dei grilli e ci sono tante farfalle multicolori.

Ho ricominciato a camminare, un auto mi ha dato un passaggio e mi sono fatto lasciare in prossimità della “Galleria delle Nove Curve”, dove le gole regalano alcuni degli scorci più caratteristici. La valle è strettissima e tra curve da capogiro, controcurve, gorghi e anfratti formati dal fiume, affiorano massi di marmo levigati dall’impeto dell’acqua e dalla forza del vento. Hanno striature verdi e nere, in altri punti il marmo è bianchissimo e impossibile da osservare perché reso abbacinante dalla luce del sole, in altri ancora le striature si sovrappongono fino a fondersi, alcune pareti sembrano di cartapesta. Percorro tunnel stretti e bui scavati nella roccia, alcuni sono così minuscoli da sembrare finti e ricordano le gallerie dei trenini giocattolo. Ho chiesto un altro passaggio e una Mercedes mi ha portato fino a Tienhsiang.

Nel pomeriggio sono andato al “Tempio di Hsiang Te” che si trova su una collina, l’abate di nome Ti – Chaio, è un’americana che vive a Taiwan da oltre vent’anni. Mi ha dato un opuscolo patinato (ma sarebbe meglio definirlo “brochure”) intitolato “La gioia di donare” con frasi e riflessioni per sensibilizzarti al mantenimento del tempio, danneggiato dal terremoto e dal tifone del 1990. Questa congregazione buddista ha templi anche in Malesia, Singapore ed Australia e sulla brochure c’è l’indirizzo di una banca di Taipei con le coordinate per effettuare il versamento. La maggior parte delle monache t’invita a scrivere il nome su un libro e a fare una donazione che contribuirà alla “realizzazione della tua fortuna e felicità”, così dicono i cartelli in lingua inglese appesi un po’ da tutte le parti. Mi sembra una costrizione ed una forzatura: chi di fronte a questa affermazione non fa’ un’offerta? Il tempio è grande e ben tenuto, c’è una pagoda a sette piani, una monaca mi ha detto: “E’ identica a quelle che ci sono nella Madrepatria”. Tra me e me penso che in Cina non sarebbero permesse tali operazioni di “marketing”, una monaca era seduta davanti alla porta del monastero con una scatola per le offerte: forse sarebbe meglio fare pagare un biglietto d’entrata.

Mi sono diretto verso Lishan, ho preso un tunnel pedonale non illuminato e mi sono ritrovato in una valle laterale dove scorre il fiume Tatzuchili, da qui si arriva fino alle cascate di Baiyang. E’ un canyon molto stretto con un paesaggio che ricorda una valle alpina, l’acqua del fiume ha il colore della giada, qua e là spuntano massi bianchi e grigi. Dopo il tramonto sono tornato indietro, oggi vorrei una giornata di ventiquattro ore di luce! All’ostello ho fatto una doccia e ho lavato i vestiti che avevo addosso, ho cenato all’unico ristorantino aperto, avevo una fame tremenda e per ovviare ai bisogni dello stomaco ho scelto un piatto di spaghetti di riso. In questi ultimi giorni sto seguendo una dieta a base di carboidrati. Il malefico oste li condiva (erano scotti, che più scotti non si può) con un misero cucchiaio di ragù e qualche foglia di verzura, in sostanza, qui si mangia sempre in bianco! Sono tornato al mio alloggio, a Tienhsiang vivono cinquanta anime e dopo il tramonto trotterella solo qualche cane, non c’è nessun altro in giro. Il paese vive solo di giorno e gravita attorno al grande parcheggio per macchine ed autobus. Domani mattina lascerò questo posto (da visitare dal Lunedì al Venerdì, perché nel week-end è assaltato dai taiwanesi) per andare a Taipei.

Mi sono svegliato presto e sono andato alla stazione dei bus, sulla corriera, chi sceglie di sedersi in prima fila deve allacciarsi le cinture, invece quando si scende occorre consegnare il biglietto all’autista. Per due volte ci siamo fermati perché dovevano rappezzare la strada, la valle cambia continuamente colore durante le ore di luce, ieri avevo percorso questo tratto a piedi, ma basta che sia nuvolo o che il sole cambi posizione per sembrare di essere in un posto nuovo. In due ore siamo arrivati a Hualien, ho mangiato una zuppa trasparente con verdure e un piatto con “uova marmorizzate”, alghe verde scuro e tofu. Talvolta il mio piatto sembra un laboratorio di sperimentazioni e più che a sfamarmi, mi diverto a provare nuovi sapori. La fama di questa città è legata al marmo, nell’area attorno a Taroko miliardi di tonnellate sono pronte per essere estratte: sono in marmo gli alberghi di lusso, i bagni pubblici, i tavolini dei caffè e i cestini della spazzatura, è così perfino l’aeroporto.

Ho preso il treno per Taipei, l’umidità inizia a farsi sentire ed ho la maglietta bagnata, quando si sale sui treni (grazie all’aria condizionata) sembra di essere in “un’oasi felice”, ma il problema si ripropone quando si scende. I miei compagni di carrozza parlano sottovoce con voce flautata, i cellulari invece trillano imperterriti. La strada costiera da Hualien a Suao è una striscia sottile tra il cielo ed il mare, però dal treno, per le tante gallerie, non si gusta il panorama. In tre ore siamo arrivati a Taipei, il cielo da poco nuvoloso ha iniziato a cambiare, passando dal grigio scuro al nero profondo e sembrava già notte.

Taipei

A Taipei piove, ma quello che da fastidio è l’umidità. Sono andato al “Happy Family Hostel II” che si trova dietro la stazione dei treni, è un edificio anonimo e ho faticato nel trovarlo, il proprietario non c’era, ma due ragazze canadesi mi hanno detto di occupare pure un letto, ero dubbioso per questa prassi, perché il letto era sfatto e non volevo che fosse di qualcun altro, ma siccome il “manager” non si vedeva e le ragazze mi avevano dato una copia della chiave del portone d’ingresso mi sono convinto. Nei dintorni ci sono centri commerciali, fast food, caffè e ristoranti alla moda, tutti posti dove “mi perderei” per ore ed ore, sono andato al “Nova Computer Arcade”, un grande magazzino su più piani che vende materiale informatico. Come a Tainan ero affascinato per tutta questa tecnologia e ammiravo i palmari e i video ultra piatti dell’ultima generazione. In un angolo era possibile navigare in Internet, così ho scritto agli amici ed ho risposto a numerose e-mail. Volevo prendere il “MRT” (Taipei Metropolitan Rapid Transit), una metropolitana leggera che serve in modo capillare i punti nevralgici della città, ma il tempo atmosferico era pessimo (acqua a catinelle e vento forte) ed era impossibile esporsi ad una tale furia degli elementi, così mi sono consolato con del pollo fritto, la cuoca cucinava e serviva ai tavoli tenendo sulle spalle il figlio di pochi mesi.

Ho iniziato a camminare per il centro senza una meta precisa, ero stordito dal caos, dall’opulenza e dalle luci sfavillanti dei negozi, dalla bellezza e dalla civetteria delle commesse. Mi aspettavo una Taipei multicolore e moderna, ma non così intrigante e coinvolgente. Sono entrato ed uscito dai negozi del centro fino a quando ha smesso di piovere, poi ho preso il “MRT” per andare al “Mercato dei Serpenti”, conosciuto anche con il nome di “Mercato notturno di Huahsi”, che si trova nel quartiere di Wanhua. Questo luogo ha perso la sua autenticità (se mai l’ha avuta) per diventare un’attrazione per turisti, non mi è piaciuto, è un mercato “falso” e costruito ad arte per regalare “finte emozioni”. I serpenti erano tenuti in gabbie di ferro o sotto cupole di plexiglas, quelli sventrati e appesi per il collo erano agonizzanti o morti, pronti per  diventare  brodo  di  serpente   o  “cocktail afrodisiaci”  a  base di  sangue e di bile.

 

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