Il posto è fatiscente e decadente come le prime impressioni sulla città, solo la reception è caratteristica, con belle sedie in vimini, il biliardo ed il bar aperto ventiquattro ore su ventiquattro. I corridoi sono bui e la camera ha l’armadio sfondato ed il pavimento rotto. Nel pomeriggio ho visitato il “Museo Nazionale” dove sono raggruppati i reperti provenienti da Angkor e mi venivano in mente i giorni passati. Mi sembra che la città non abbia una vera e propria “anima” e che non esista un vero centro: nell’architettura dei quartieri e delle case non c’è uno stile predominante, tutto è costruito male ed alla rinfusa, sembra che la periferia debba finire da un momento all’altro, per lasciare posto alla città, ma centro e periferia sono un tutt’uno.

Ci sono alcune arterie principali che hanno nomi pomposi e vetusti come “Confederation de la Russie Bulevard”, “Mao Tse Toung Bulevard” e “Charles De Gaulle Bulevard”, dividono Phnom Penh in lungo ed in largo, come le tessere di una scacchiera. Oltre a queste grandi strade che rappresentano l’ossatura, ci sono una miriade di piccole vie trasversali distinte solo da numeri, non sono asfaltate e sono piene di buche, la spazzatura è buttata con noncuranza ai bordi e lasciata a marcire. Ovunque posi lo sguardo, vedi barriere di ferro e in filo spinato alte almeno tre metri, una protezione per giardini e abitazioni.

I negozi sono pochi, molti vendono bibite, non esistono frigoriferi e i venditori cercano di mantenerle al fresco in contenitori termici simili a quelli utilizzati nelle scampagnate domenicali. Non è raro vedere i proprietari muniti di grandi seghe, intenti a tagliare i blocchi di ghiaccio per mantenere le bevande ad una temperatura accettabile. Ci sono tanti “Karaoke Bar”, sulla porta d’ingresso chiacchierano ragazze con vestiti dai colori fucsia e sgargianti, qui non si vendono solo canzoni. I venditori di baguette invece, ti ricordano che un tempo c’erano i francesi.

Ero uscito con l’intenzione di orientarmi un po’ meglio e di avere in testa “almeno mentalmente” la topografia della città, CambogiaDiario23.jpg (6497 byte)invece sono più confuso di prima e mi verrebbe voglia di scappare e di andare via. Il contrasto con Angkor Wat è stridente, questa è un’altra Cambogia. Ho acquistato il “The Cambodia Daily”, il giornale di Phnom Penh e in prima pagina leggo: “Gunmen hijack boat, rob Angkor bound passengers”. Ieri mattina sette uomini armati con mitra “AK 47” e coltelli, avevano assaltato la barca presa stamani, rapinando i novanta passeggeri, l’articolo affermava che era il primo incidente dal 1996 ad oggi. Tutto ciò non fa altro che aumentare la mia apprensione su questa città e sulle sue “famose notti”, dove non sono infrequenti rapine ed assalti.

Ho mangiato una baguette e dell’anatra arrosto che ha un bel colore arancione, sono poi entrato in un “pub” e ho avuto un’esperienza celestiale: una “Angkor Beer” alla spina in un bicchiere gelato, estratto direttamente dal freezer. Le birre sono diventate subito tre, di cui una offertami da Jim il proprietario irlandese: penso di non avere mai avuto voglia di birra ghiacciata come in questo momento. La sera, sono stato prima allo “Sharky”, un disco pub, e poi al “Martini”, il locale più famoso di Phnom Penh il cui slogan è “Bored, lonely, hungry: we have every thing you need!”. Era una specie di discoteca con stranieri e ragazze disponibili, al bar ho conosciuto Joy, le ho offerto noodles da mangiare, la sua era fame vera, poi sono fuggito nella notte verso il “Walkabout”.

La mattina sono andato in mototaxi ai “killing fields”, i campi di sterminio di Choeug Ek, dove fra il 1975 ed il 1979, sono stati ammazzate a bastonate (per economizzare sulle pallottole) circa 17.000 persone. Abbiamo fatto rifornimento alla moto, le pompe sono poche e la benzina è venduta per strada nelle bottiglie di plastica da un litro e mezzo. Il viaggio di diciassette chilometri è durato mezz’ora: da un centro città e da una periferia che erano tutt’uno, siamo passati ad una campagna secca e brulla. Mi ha colpito il contrasto tra questo luogo di dolore con i canti dei bambini che provenivano da una scuola vicina: un contrasto irreale da “film horror”,CambogiaDiario24.jpg (6273 byte) un’antitesi tra il vecchio ed il nuovo. A Choeug Ek c’è un monumento tutto in vetro dove sono ammassati circa 8000 teschi, se li guardi da vicino noti che sono fracassati e ne intuisci anche il perché. Attorno al sacrario invece, ci sono le fosse comuni da cui spuntano ossa spezzate: c’è poco da dire e mi chiedo che cosa sono venuto a fare in questa “ex fabbrica di morte”, ma il viaggiatore deve vedere tutto, cercare di capire e nutrirsi di sensazioni anche non gradevoli.

Sosta successiva al Wat Phom: la leggenda afferma che nel 1373 una ragazza di nome Penh portò su questa collina una statua di Buddha, ecco da dove viene il nome della città. Phnom Penh significa “La collina di Penh”, il tempio non mi ha entusiasmato e tutto mi sembra scontato ed uguale, sono in uno stato fisico e mentale da “fine viaggio”, quando hai già visto tutto e non devi fare altro che riprendere l’aereo per tornare a casa. E’ un sintomo preoccupante, perché sono appena ad un terzo del viaggio.

Dopo avere mangiato del pollo ossuto al ginger, operazione nella quale mi sono rotto un dente, sono stato al “Phsah Thmei”, il mercato coperto, ingentilito da un’architettura singolare e “Deco” ed assomigliante ad una stazione ferroviaria. Vendevano le solite cose, mi ha incuriosito il gran numero di negozi che esponevano parrucche da donna, in una bancarella ho comprato dei tessuti finemente lavorati. Nel pomeriggio sono andato al palazzo reale, la residenza del re Norodom Sihanouk, ricorda il palazzo omonimo di Bangkok, è un luogo bello e scenografico con i tetti dorati e spioventi, il prato all’inglese e i tanti fiori. All’interno c’è la “Pagoda d’argento”, CambogiaDiario25.jpgcon il pavimento coperto con più di 5000 piastrelle argentate, dal peso di un chilogrammo l’una.

Ti viene spontaneo paragonare la Phnom Penh delle strade non asfaltate, della spazzatura accatastata ovunque, dei bambini e degli storpi che non ti danno un attimo di tregua, con la “bellezza sublime” e “l’ordine maniacale” che c’è all’interno di questa “gabbia dorata” e vorresti urlare la tua disapprovazione ai quattro venti: è la solita disparità fra ricchi e poveri. Tutto è perfetto e in antitesi con la realtà quotidiana: solo adesso mi sono pentito dei tre dollari pagati per il biglietto d’ingresso, che contribuiranno al mantenimento del posto.

Sono poi stato al museo di Tuol Sleng: fino al 1975 questa era una scuola, poi Pol Pot l’ha trasformata in prigione conosciuta con il nome di “Security prison 21“ (S 21), il maggiore centro di prigionia e di detenzione di tutto il Paese, da qui i prigionieri erano inviati ai “killing fields” visitati stamattina. La scuola, dall’esterno sembra un posto come tutti gli altri, è formata da tre edifici, due ai lati e uno centrale. Quest’ultimo è il più impressionante, con la facciata ingabbiata dal filo spinato, affinché ai prigionieri non venisse “l’insana idea” del suicidio, buttandosi nel vuoto. All’interno delle aule, i Khmer Rossi (per ottimizzare lo spazio), avevano costruito piccole celle in mattoni, che nella luce del tramonto sono ancora più lugubri. Alle pareti ci sono centinaia d’immagini sbiadite in bianco e nero, di prigionieri incarcerati e mai più usciti, attrezzi agricoli utilizzati come strumenti di tortura e la famosa mappa della Cambogia costruita con teschi e tibie umane. I turisti giapponesi, la loro gioia, i loro gridolini e i ritratti che si fanno, mi mettono ancora più a disagio, mi chiedo se anche loro vedano e provino le stesse sensazioni.

Dopo una baguette ed una doccia, sono tornato al “pub” di Jim e la serata è volata, ho discusso con un italo australiano che vive e lavora qui, della Cambogia vista dal suo punto di vista: dello stipendio medio di uno statale che è di sedici dollari il mese, ma per sopravvivere ne servono almeno venticinque, CambogiaDiario27.jpg (9756 byte)così le persone si inventano un lavoro supplementare se non due. Della ragazze che vanno con i turisti per dieci o venti dollari a notte, della corruzione dilagante, della scelta di puntare dal punto di vista turistico solo su Angkor, escludendo irrimediabilmente il resto del Paese. Verso le due di notte sono tornato al Walkabout Hotel, interrogandomi ancora una volta su cosa sono venuto a fare qui, che stare in questa città non ha senso e che vorrei andarmene subito, ma il pensiero correva già a domani, a Sianukville e questo è un sollievo.

L'indomani sono andato al mercato di “Phsah Thmei” da dove partono gli autobus per Sianukville (Kampong Som), la corriera era completa e mi sono prenotato per la successiva. Il viaggio per coprire 230 chilometri dura quattro ore e i collegamenti terminano nel primo pomeriggio. Un’alternativa sono i taxi collettivi, sono sempre pieni e le compagnie utilizzano ogni spazio disponibile per massimizzare i guadagni.

Tornato al mercato, sono rimasto affascinato dalle bancarelle dei venditori di frutta che esponevano manghi, ananas, mele, ed altri, dei quali non conoscevo il nome. Il reparto più intrigante era quello dei venditori di cibo, con cuochi e camerieri in fervente attività. Dagli wok uscivano pietanze incredibili e dagli odori appetitosi, ho ordinato una vera colazione alla cambogiana con noodles, carne e vegetali. Il bus è partito puntuale, la “Strada Nazionale numero 4” era un rettilineo lungo e monotono, il traffico era inesistente (a parte qualche camion) ed il paesaggio era verde e collinoso.

 

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