Penso che questo primo approccio con i “fantasmi” del periodo di Pol Pot sia un “macabro antipasto” per quello che vedrò nei prossimi giorni. Una statistica curata dalla Croce Rossa e dall’Unicef diceva che le mine avevano causato 2.902 incidenti nel 1996, 1.598 nel 1997, 1.538 nel 1998 e 757 nel 1999. La provincia più colpita è quella di Battambang con il 32% dei casi e lo scorso anno su 757 incidenti, ci sono stati 348 feriti, 253 amputati e 156 morti: sono solo fredde statistiche, ma mettono i brividi.

 

Angkor Wat

Risalito in moto sono partito per Angkor Wat che dista sette chilometri da Siem Reap, prima di arrivare, c’è un posto di blocco dove occorre acquistare il biglietto d’entrata: è consigliabile acquistarlo direttamente alla biglietteria e non incaricare altre persone. Sono numerosi i racconti e gli aneddoti sul riciclo dei biglietti scaduti rivenduti dai locali agli ignari visitatori, cambiando la data di validità stampata sul biglietto. Il costo è di venti dollari per un giorno, quaranta dollari per tre giorni e sessanta dollari per una settimana, ho scelto per il biglietto da tre giorni, che se è acquistato dopo le quattro del pomeriggio vale per tre giorni e mezzo. E’ un’occasione da non perdere, perché questo “bonus”, può essere utilizzato per iniziare ad esplorare Angkor Wat con la luce intensa del tardo pomeriggio, quando variano i colori delle pietre e le sfumature dei bassorilievi. Questo “festival di sensazioni visive” trova il suo apice all’ora del tramonto.

Finalmente ho intravisto le famose torri d’Angkor Wat e sono riuscito a coronare un sogno del viaggiatore che è in me: avevo sognato di percorrere la “Via della Seta”, di vedere Bukara e Samarcanda, il Mekong e le Pagode Birmane ed ora finalmente eccomi ad Angkor. Quando ho iniziato a percorrere il viale maestoso che porta al tempio, mi venivano le lacrime agli occhi, per avere finalmente raggiunto questo luogo sul quale avevo fantasticato tanto e che fino a qualche anno fa sembrava inaccessibile: un tempo, la soluzione meno azzardata era un “mordi e fuggi” con il volo aereo da Phnom Penh a Siem Reap. Per coloro che arrivavano a Siem Reap in barca o che si spingevano verso Banteay Srei o Battambang si parlava d’assalti e rapine, di rapimenti ed ammazzamenti ad opera dei banditi o dei Khmer Rossi, di turisti scomparsi e mai più ritrovati.

Da due anni a questa pCambogiaDiario7.jpg (6727 byte)arte, la Cambogia è diventata un luogo “relativamente sicuro” ed il Paese si sta aprendo a flussi turistici sempre maggiori, questo è positivo e negativo: è un bene perché il turismo attira capitali, un male perché i locali ricevono una visione distorta dell’occidente e la sete di denaro e i flussi turistici sempre maggiori rovineranno irrimediabilmente questi luoghi. Ero munito della guida “Angkor” di Dawn Rooney, edizioni Odyssey (in lingua inglese ed acquistabile in loco), uno strumento importantissimo e fondamentale, mentre dal sito http://www.theangkorguide.com/ avevo “scaricato” il libro di Maurice Glaize, scritto nel 1946 ma ancora attualissimo “The Monuments of the Angkor grup” (in lingua inglese).

Questo pomeriggio il libro non l’ho voluto aprire, volevo godermi le sensazioni e le prime impressioni senza fretta, volevo gustare il tramonto rosso fuoco che si stava disegnando davanti a me, volevo recepire il più possibile senza dovere capire “per forza” quello che mi trovavo davanti, volevo saziare i miei occhi curiosi con impressioni che non trovavano collegamenti e conferme con i periodi storici, i metodi di costruzione, gli stili e le architetture: parole come asura, banteay, baray, deva, gopura, naga, preah, prasat, non mi dicevano nulla. Volevo godermi i tanti bassorilievi ispirati ai poemi indiani del Ramayana e del Mahabarata e le scene di guerra che trasmettono bellezza, intensità, potere e grandiosità. Volevo soffermarmi ad ammirare le Apsara, le ninfe celesti, scolpite un po’ ovunque che “tappezzano” e occupano, come piante rampicanti, interi muri. Le Apsara sono tutte diverse fra loro, CambogiaDiario8.jpg (5712 byte)abbigliate con i sarong (i lunghi vestiti tradizionali), indossano sfavillanti gioielli ed hanno elaborate acconciature, sono “immortalate” nella pietra mentre danzano o tengono un fiore di loto fra le dita.

Sono salito su una delle cinque torri centrali per assistere al tramonto, il sole era una rossa palla di fuoco che con fatica è sparito all’orizzonte. Ero appollaiato su un masso reso rovente dal calore, al mio fianco c’erano tanti “backpakers” che osservavano in religioso silenzio la giornata che si spegneva, mi sembrava di essere nel mezzo di una cerimonia “New Age” ed ogni piccolo rumore o bisbiglio, sembrava spezzare questa sorta d’incantesimo. Le orde di “turisti motorizzati” se n’erano già andate, si sentivano solo i rumori della foresta e dei bambini che giocavano in lontananza. In me, per l’incontro con Angkor, c’è un turbinio di pensieri che combatte con le emozioni.

C’è stupore per questo posto del quale conosco poco, penso ad ieri quando ero in Italia, mentre adesso mi trovo in questa “realtà indocinese”. In cielo c’è la luna piena, le prime ombre della sera fanno spazio ad una luce “bianco latte” che avvolge tutto, n’approfitto per scattare qualche foto, mentre la luna sale in cielo con una velocità spaventosa. Tornato a Siem Reap ho cenato al “Bayon II”, consigliato da Sandra per uno “straordinario pesce in noce di cocco”, che ho ordinato con entusiasmo. I camerieri sono incollati ai tavoli degli avventori e sembra che ascoltino e seguano con interesse i discorsi. Ho pagato il conto in dollari americani, il resto è dato in Riel (la moneta locale), almeno così, non si cammina con rotoli di banconote nelle tasche. Tornato alla Guest House mi sono addormentato. CambogiaDiario9.jpg (4299 byte)

All’alba Yuth era pronto per portarmi ad Angkor Wat, perché volevo vedere il tempio all’alba. A poco a poco è iniziato ad albeggiare e le torri d’Angkor, che poco prima si distinguevano a fatica, sono diventate più nitide, mentre orde di turisti erano scaricate a frotte da minibus, moto e auto. La magia del posto era attenuata da questo fiume barbaro e chiassoso, irrispettoso per un alba da vivere in “religioso silenzio”. Il sole è affogato in un oceano di nuvole basse e grigie, tradendo le mie aspettative per un’alba da cartolina. Ho “circumnavigato” le mura del tempio, spingendomi fino all’entrata posteriore, da qui mi sono addentrato nella foresta per avere un’altra prospettiva del Wat. Seduto su un masso, che una volta era parte viva del muro portante, mi sono messo a leggere la storia d’Angkor Wat: la costruzione (dedicata a Vishnu e terminata in trent’anni) è attribuita all’architetto Visakarman. Iniziata sotto il regno di Suryavarman II, che introdusse il concetto del Re-Dio (dove il Re era un Dio in terra), fu conclusa dopo la sua morte. Secondo la tradizione questa dovrebbe essere anche la sua tomba: opinione rafforzata dal fatto che il Wat è rivolto verso ovest, la direzione che simbolizza la morte nella cosmologia Hindu. 

Angkor è una replica in pietra dell’universo e ne rappresenta il modello terreno: le cinque torri che si ergono al centro, simbolizzano il monte Meru, montagna mitica e casa degli Dei, asse del Mondo, attorno alla quale sono disposti i continenti e gli oceani. I muri che la circondano simbolizzano invece la terra ed il fossato più esterno rappresenta gli oceani. D’Angkor Wat colpiscono i numeri: occupa un’area di 210 ettari, CambogiaDiario10.jpg (7397 byte)è cinta da un imponente muro in laterite e circondata da un fossato lungo 5.5 chilometri e largo 190 metri, la via che porta al tempio, lastricata con enormi massi di pietra è lunga 250 metri e larga 12.Vista l’enormità del posto è difficile averne un’idea immediata, la sua bellezza e la complessità distraggono e attraggono nello stesso tempo: da lontano Angkor Wat appare come un colossale monolito di pietra costruito su un solo livello, ma a mano a mano che ci si avvicina e ci si addentra all’interno, si scopre che i livelli sono tre, con torri, gallerie, verande e cortili uniti da scale. Ai lati d’ogni livello ci sono quattro torri, mentre all’ultimo ce ne sono cinque. Alle torri del primo e del secondo livello è difficile farci caso perché sono tronche a metà e da lontano, non lo capiresti mai. Adesso sono il “padrone” d’Angkor Wat perché i turisti arrivati per vedere l’alba hanno proseguito nei loro tour: visitare i templi al di fuori degli “orari turistici” ha i suoi vantaggi.

Dopo essermi dissetato con il succo di una gran noce di cocco ho deciso di dirigermi verso Angkor Tom, l’antica capitale del regno, fondata da Jayavaram VII alla fine del dodicesimo secolo, il centro religioso ed amministrativo dell’impero Khmer. All’epoca del suo massimo splendore ci vivevano più di un milione di persone, una popolazione maggiore che in qualsiasi città europea di quel tempo. All’interno delle sue mura c’erano gli appartamenti reali, quelli dei dignitari e dei sacerdoti, la popolazione invece viveva al di fuori delle mura. Gli edifici erano costruiti in legno e ora rimangono solo quelli in pietra.

Ho varcato una delle cinque porte d’ingresso alla città, per la precisione quella “Sud” che presenta un gran gopura CambogiaDiario11.jpg (6470 byte)alto ventitré metri con quattro enormi volti scolpiti nella roccia, ognuno per un punto cardinale. La strada d’accesso ad Angkor Tom è abbellita da 108 gigantesche figure in pietra che rappresentano i guardiani della città: alla destra 54 demoni, gli asuras, che hanno un’espressione somigliante ad una smorfia ed indossano abiti militari, alla sinistra 54 Dei, i devas, che hanno un’espressione serena, con occhi a mandorla e una buffa acconciatura dalla forma conica. Dei e demoni tengono fra le mani il corpo di un naga, il Dio serpente a nove teste.

Sono andato al Bayon, il “Tempio Montagna” che simbolizza il Monte Meru, voluto da Jayavaram VII e edificato esattamente al centro della città, da lontano sembra una gran montagna o una piramide di pietra, da cui spuntano gigantesche teste. Non ti accorgi subito di quello che hai davanti, non ne hai una visione d’insieme ed all’inizio rimani perplesso, ma a mano a mano che ti avvicini, gli spazi si fanno più aperti, s’intravedono i lunghi corridoi, le scalinate che portano fino al livello superiore ed i bassorilievi. Di colpo tutto sembra diverso, in questo labirinto di pietra ogni attimo è per una nuova scoperta, inizi ad innamorartene e vorresti non andartene più via. Il Bayon è costruito su tre livelli, i primi due contengono gallerie con bassorilievi che descrivono la vita di tutti i giorni, i lavori nei campi, gli attrezzi per coltivare, pescare e cacciare, gli strumenti musicali, le abitazioni, le usanze e gli abiti Khmer: molto è rimasto immutato nei secoli e la Cambogia di un tempo è ancora la Cambogia d’oggi.

 

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