Ho fatto questo viaggio nel marzo del 2000: partendo da Bangkok, ho raggiunto in aereo Angkor, l’antica capitale dell’impero Khmer, poi navigando sul Tonlè Sap sono stato a Phnom Penh e da Sianukville (Kampong Som) sono tornato in Thailandia.

CambogiaDiario1.jpg (5525 byte)Il momento della partenza è “un attimo” da assaporare a poco a poco, come una delle piccole gioie quotidiane e delle sensazioni squisite e fuggevoli, raccontate nel libro di Philippe Delerm “La prima sorsata di birra”. Sei soddisfatto di potere partire e guardi tutto e tutti con un’aria d’autocompiacimento, pensi a come potresti capitalizzare i giorni “On the road” e “puff”, come in un bel sogno, svaniscono i problemi, le contraddizioni, le piccole e grandi delusioni di tutti i giorni. La pianta del piede inizia ad essere colpita dal “male da aereo”, un dolorino sottile e fastidioso che culminerà con il gonfiore ai piedi e nella difficoltà nel rimettere le scarpe. Grazie alla mia dieta alimentare, a base di frutta e verdure, che in due mesi mi ha permesso di perdere undici chili, tutti i vestiti mi stanno perfetti o sono larghi, una volta tanto è svanita quella fastidiosa sensazione, tipica d’ogni partenza, con maglietta e calzoni troppo stretti.

Il volo Milano Amsterdam è trascorso rapido e veloce: nell’attesa della coincidenza per Bangkok ho visitato i negozi del “Duty Free Shop”, la fame è ai “massimi livelli”, non so se questa sensazione, sia dovuta all’abbandono del ristretto regime alimentare o da altre cause. Ero attanagliato dai crampi allo stomaco e rimanevo incantato nel guardare la vetrine traboccanti d’ogni ben di Dio: formaggi olandesi, aringhe affumicate, cioccolato “Droste” e “Godiva”. Poi l’imbarco, i “sedici grammi” di noccioline e la birra servita dopo il decollo, non hanno eliminato la sensazione di fame. Appena ho iniziato a dormire hanno servito la cena: una “sottospecie di lasagna” in salsa di besciamella con contorno di cavolfiori. CambogiaDiario2.jpg (7779 byte)Era di una pochezza infinita, ma il ricordo di quel cibo nefasto mentre scrivo, mi fa tornare l’acquolina in bocca. Quando il sole è tramontato hanno spento le luci e l’aereo è sprofondato nel buio totale: incastrato nella poltrona, era impossibile ogni movimento verso l’esterno, i miei “vicini” dormivano, così contavo le ore ed i minuti che mi separavano da Bangkok.

Quando siamo arrivati, ho guadagnato l’uscita, conquistando un carrello per gli zaini. Ho fatto a passo di carica il lungo tunnel che porta all’area dei voli nazionali, dove c’è la biglietteria della “Bangkok Airways” e ho acquistato il biglietto aereo per Siem Reap: avevo deciso di arrivare ad Angkor in volo, non via terra dal confine di Poipet. Oggi è Domenica, l’ambasciata cambogiana è chiusa e sarei dovuto rimanere a Bangkok un giorno in più. Da Bangkok al confine ci sono cinque ore d’autobus, da Poipet a Siem Reap ci vogliono più di dieci ore per fare meno di duecento chilometri ed è impossibile fare il percorso in giornata. Non avevo intenzione di perdere tre giorni per arrivare a destinazione. Ma le comodità hanno il loro costo, ho pagato senza battere ciglio i centocinquanta Euro del biglietto di sola andata, e sono ritornato agli “internazionali” per fare il “chek in”. Dopo nemmeno un’ora ho lasciato la Thailandia, ma una volta tanto, abbandonavo il “Don Muang” per andare in un paese limitrofo e non per tornare in Italia.

Sono salito sul bus che porta all’ATR 42, l’aereo “simbolo” della “Bangkok Airways” e ho abbandonato quel “castello fatato” che è l’aeroporto con l’aria condizionata sempre al massimo. Si sono appannati gli occhiali e mi ha avvolto un caldo umidoCambogiaDiario3.jpg (7013 byte) che mi ha reso appiccicaticcio: l’abbigliamento ancora troppo europeo non era l’ideale, i jeans sembravano pesanti come uno scafandro da palombaro. A bordo siamo coccolati da bellissime hostess, lancio fugaci occhiate nella loro direzione, ma sono troppo eccitato per l’arrivo ad Angkor Wat. Nell’attesa, ho ingurgitato tutte le “nefandezze alimentari” che ci hanno propinato e nel mio stomaco c’è un miscuglio di sostanze iniziate ad assumere ventiquattro ore prima. Non mi sembra di essere in viaggio da così tanto tempo, ma questo “tour gastronomico mondiale” n’è la conferma.

Vista dall’alto la Thailandia è verde e rigogliosa, mentre la Cambogia è brulla e ti ricorda il deserto. A mano a mano che l’aereo degradava verso il suolo, ho iniziato a scrutare l’orizzonte, nella speranza di vedere i famosi templi. C’erano terra rossastra e pochi alberi, prima di atterrare ho intravisto in lontananza i “prasat”, le torri d’Angkor Wat, ma non ho avuto nemmeno il tempo di imprimere l’immagine nella mente che siamo atterrati. Con uno scatto da centometrista, sono riuscito a presentarmi per primo all’ufficio visti, davanti a me erano seduti cinque poliziotti che ricordavano una commissione d’esame, era una “catena di montaggio” dove il passaporto passava di mano in mano ed ognuno aveva un compito preciso, come il guardare la foto e spillarla sul modulo. Fra timbri e firme, il documento arrivava all’ultimo addetto, che in cambio del timbro d’entrata, riceveva venti dollari. Tempo dell’operazione, nemmeno due minuti.

Siem Reap

Dopo avere ottenuto il visto d’ingresso, ho chiesto al banco dei taxi una moto per arrivare a Siem Reap. Durante il percorso,CambogiaDiario4.jpg (7655 byte) l’autista teneva un’andatura cicloturistica, forse per preservare al meglio la meccanica, il mezzo non poteva che essere l’Honda “Dream 100”, compagna di tanti viaggi a queste latitudini. Sento l’aria secca che mi assale, dall’asfalto proviene un calore che prosciuga e che fa venire voglia di una birra ghiacciata, tutto attorno c’è il continuo e cantilenante gracchiare delle cicale. Mi sono fatto portare all’European Guest House, un alberghetto gestito da Ian, un nordamericano sposato con Samnang, una donna Khmer, un posto consigliato dai viaggiatori che avevano “postato” i loro report e le loro impressioni sul sito della guida “Lonely Planet” e sul newsgroup “Rec Travel Asia”.

In questo viaggio non avevo guide perché quelle in commercio contenevano informazioni troppo datate, avevo solo fotocopie, frutto delle ricerche sul w.w.w. Ian mi ha fornito un sacco d’informazioni utili e Yuth, il mio autista, è stato promosso “driver ufficiale” per la permanenza a Siem Reap. Sono stato al mercato: sarà per la giornata domenicale, ma la vita sembra molto tranquilla, c’è un quieto vivere che fa bene al cuore, è il benvenuto dopo i mesi di gennaio e febbraio vissuti caoticamente. Tutti ti regalano un sorriso ed è già un buon inizio. Quest’impatto mi ricorda lo scorrere del tempo nella valle Himalayana dello Spiti, dove avevo riscoperto che i ritmi della giornata erano scanditi dall’orologio biologico che c’è in noi. Non provavo nessuna “emozione negativa”, per le ore passate ad aspettare un autobus o nel trascorrere la mattina a mangiare prugne selvatiche guardando le montagne.

Ho saziato il brontolio dello stomaco con una sosta al “Singapore Asian Restaurant”, volevo iniziare a scoprire la cucina cambogiana, CambogiaDiario5.jpg (8625 byte)ho scelto pesce fritto in salsa di mango e frutti di mare in salsa di sesamo, da bere “Angkor Beer”, con la quale c’è stato subito gran feeling. A prendere le ordinazioni c’era un esercito di ragazzine un po’ cresciute, che nei momenti di pausa giocava con una bambola, il gioco s’interrompeva ogni volta che un piatto era pronto, il segnale era il trillare di un campanello. Ho ritrovato con molta difficoltà la strada per la Guest House, mentre un sole assassino faceva egregiamente il suo dovere, sfiancando il mio corpo, che in meno di ventiquattro ore, era passato, da un timido accenno di primavera italiana ad un’estate calda e secca. Ho dormito un po’ ed all’ora stabilita, Yuth era in strada ad aspettarmi.

Sono stato al “Museo delle mine”, creato con i reperti provenienti dal periodo di Pol Pot, raccolti dal fondatore, il Sig. Aki Ra. Costui mi ha raccontato che all’età di cinque anni i suoi familiari furono uccisi dai Khmer Rossi e che fu costretto ad abbandonare il villaggio, per andare a lavorare nei campi. Quando si era arruolato nell’esercito Vietnamita, aveva minato i campi nei quali aveva lavorato e dopo la guerra, li aveva bonificati. Aki Ra ha concluso la chiacchierata dicendomi che un giorno tutte le mine saranno eliminate dalla Cambogia, questo è il motivo per cui ha voluto il museo, che nello stesso tempo deve essere un monito ed un ricordo per le generazioni future. Il museo è all’aperto e i reperti sono allineati sotto una struttura in bambù, ci sono ordigni di tutte le nazionalità, soprattutto mine, da quelle vietnamite (rozze e somiglianti a delle pentole),  a  quelle cinesi,  russe e americane,  ci sono anche razzi, bombe ed armi da fuoco.

 

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