Stasera, dietro i cortesi ma insistenti inviti di Ian,CambogiaDiario17.jpg (8112 byte) ho deciso di cenare alla Guest House: tutto era ottimo, soprattutto la carne al curry. Al centro del piatto da portata avevano dato a patate, cipolle e carote le sembianze di fiori di loto. La cosa più interessante è stato il dialogo a distanza, fatto di parole e di sguardi “taglienti come lame” fra Ian, il cinquantenne proprietario della Guest House e la bella e sensuale giovane sposa cambogiana, che si divertiva a fare arrabbiare il marito, rispondendo con maliziosi “Ok papy!”.

La mattina sono tornato ad Angkor Wat, poi mi sono fatto riportare al Ta Phom e sono salito in cima ad una delle tante gallerie che uniscono il tempio. Seduto sui gradoni della volta, avevo una visione privilegiata del complesso: davanti a me si erigevano una decina di torri, alcune dalle forme armoniose e intatte, altre martoriate dal passare del tempo. Tutte svettavano verso l’alto, questa era la visione d’insieme, ma quando le osservavi meglio, ti sembrava che fossero costruite “ad incastro” e ti chiedevi quale miracolo permettesse di non farle crollare.

Ora ho davanti a me l’Angkor che mi aspettavo, meno scenica dei prasat e dei raffinati bassorilievi d’Angkor Wat, ma emozionante come non mai: dalla posizione rialzata mi sembrava di percepire e d’essere partecipe ad ogni movimento e suono della natura. Dal rumore degli uccelli (soprattutto pappagalli), dal suono secco dei piccoli fichi acerbi che arrivano a terra come proiettili, dal rumore delle foglie che cadono al primo alitare del vento. In lontananza senti anche il vociare dei turisti che annunciano il loro arrivo e le loro voci e i loro lazzi stridono con la quiete del posto, ricordano il rumore del tuono durante un temporale primaverile. Potresti perderti per ore nel guardare il percorso delle radici colore avorio fra le pietre scure, le figure scolpite, le apsara, i Buddha, le geometrie floreali ed i frontoni. Il pensiero non può che correre a come dovevano essere questi luoghi, quando arrivarono i Francesi, alla loro meraviglia e allo stupore davanti ad una foresta che per secoli era stata l’unica padrona.

Al Ta Phom, come in qualsiasi altro posto, sono assalito da frotte di ragazzini che urlano a squarciagola ”postcards, cold drinks, books, t-shirts”. Dopo un po’ non se ne può più, e nonostante le insistenze, vorresti acquistare qualcosa da ognuno di loro, ma è impossibile. Davanti ad una rinfrescante noce di cocco, nonostante la “non voglia di comprare”, incapace di resistere ad un nuovo assalto, ho alzato “bandiera bianca” e ho comprato ancora una maglietta, un sarong e due kramas (le sciarpe grezze utilizzate indistintamente da uomini e donne). Ho mangiato con Yuth noodles precotti che costavano tre dollari al piatto, penso che cifre simili debbano fare impallidire i cambogiani, visto che il reddito medio pro capite è inferiore ai duecento dollari l’anno ed un impiegato statale ne guadagna sedici il mese.

Il mio autista è una via di mezzo fra un vecchio maggiordomo inglese ed una madre troppo apprensiva: ho impiegato due giorni per non farmi chiamare “Sir” ma solamente John, a tavola mi pulisce le posate e ieri, dopo lunghe insistenze, ha accettato il mio invito a pranzo, dicendomi se volevo terminare la sua carne perché non aveva più fame. Queste forme di “servilismo” mi fanno piacere, ma provocano anche disagio e rabbia. Tornato a Siem Reap sono stato all’ufficio postaleCambogiaDiario19.jpg (5544 byte) a comprare i francobolli, anche qui si paga in dollari. Per timbrare le cartoline utilizzano un attrezzo originale: un martello al quale hanno aggiunto il timbro.

Mi sono fatto riportare ad Angkor Wat e per l’ultima volta ho percorso il lungo viale, dedicandomi ai bassorilievi che si trovano lungo le gallerie esterne del primo livello, ispirate ai poemi indiani e alle scene di guerra. Il bassorilievo più famoso è quello chiamato “Churning of the ocean of milk” che potrebbe essere tradotto come “La trasformazione in burro dell’oceano di latte”, dove Dei e demoni combattono per produrre l’amrita, l’elisir dell’immortalità. Devas e asuras fanno una specie di tiro alla fune con il serpente Vasuki per risalire e ridiscendere dal Monte Mandara verso l’oceano: il meccanismo di questa famosa scena non mi era molto chiaro, perché non conoscevo il significato della parola inglese “churning”. L’ultimo giorno è volato via: all’inizio mi chiedevo cosa avrei fatto per così tanto tempo nella capitale dell’impero Khmer, ora inizio a rimpiangere questa scelta, vorrei “congelare” questi attimi, come l’immagine che si fissa su una pellicola fotografica.

Stasera Yuth mi ha proposto di cenare con lui, siamo andati in un locale frequentato da Khmer. Le moto degli avventori erano parcheggiate a ridosso dei tavoli e siamo stati presi in consegna da cameriere, che indossavano divise dal colore rosso fuoco e panna. Quelle vestite di rosso prendevano le ordinazioni, mentre le altre, riempivano continuamente i bicchieri con grossi pezzi di ghiaccio. Questo valeva per qualunque cosa si bevesse, compresa la birra che così barbaramente allungata, aveva un sapore disgustoso.CambogiaDiario20.jpg (7837 byte) Yuth ha ordinato uno strano vino, presentatomi come “flour wine”, allungato con una bevanda energetica di nome Lipovitan, da bere tutto in un fiato. Sulla tavola sono arrivati pezzi di fegato, costine di maiale e cruditè. C’erano cornetti, insalata, zucchine e cetrioli cui si aggiungeva del peperoncino, c’era anche uno strano ortaggio da grattugiare. Per dessert abbiamo mangiato frutta candita, con sopra una generosa spruzzata di ghiaccio tritato. Dopo cena siamo andati al “Martini”, c’erano tante ragazze con il numero appuntato sul petto, molte ballavano, ed era piacevole vederle in azione nelle danze Khmer, mentre muovevano sinuosamente braccia e mani: i loro corpi ricordavano le apsara immortalate nei bassorilievi d’Angkor.

All’alba Yuth mi aspettava per portarmi all’imbarcadero, ben presto abbiamo abbandonato l’asfalto, per una pista di terra rossa piena di buche, tutto attorno c’era un insopportabile odore di pesce, povere capanne e gente con facce tristi, tutti segni tangibili di una vita non facile. Al molo, le moto correvano su e giù come impazzite, molte erano parcheggiate attorno a grandi ceste colme di pesce ed a venditori di tutto e di niente. Mi sono congedato da Yuth, gli ho regalato un orologio ed una maglietta e sono salito su una piccola barca che percorrendo un canale, ci ha portati fino al molo sul lago Tonlè Sap dove era ormeggiata la barca veloce per Phnom Penh. L’imbarcadero non è mai nello stesso posto perché il livello del lago è variabile, nella stagione delle piogge o in quella secca può essere spostato anche di qualche chilometro. 

Ho acquistato il biglietto e sono salito sulla Khemara, una barca dalla forma aguzza simile ad un sigaro,CambogiaDiario21.jpg (9124 byte) sottocoperta l’aria condizionata è gelida, mentre alla TV proiettano un terribile film di “Kung fu” dove tutti se le danno di santa ragione. La barca ha iniziato a correre veloce sul Tonlè Sap, mi sono spalmato di crema solare e ho fatto colazione con un ananas, un’anguria che sapeva di cetriolo e un mango verde dal sapore insipido e farinoso. Dal lago abbiamo iniziato la navigazione sul fiume che si chiama come il lago, le sponde sono brulle con qualche albero. Ci sono poche imbarcazioni, il Tonlè Sap non sembra essere una grande via di comunicazione. A poco a poco le capanne sono diventate più numerose e alle casupole in bambù si sono sostituite quelle in cemento, il viaggio è durato cinque ore.

Phnom Penh

Nei confronti di Phnom Penh sono abbastanza prevenuto, questa città è stata definita da molti nei modi più “tremendi”, a partire da quello che mi aveva detto Sandra: “Una moderna città dell’Asia? Ma non scherziamo! Come un teso addome in putrefazione è bastato toccarla perché mi esplodesse in faccia….”, mentre nella prefazione del libro “Off the rails in Phnom Penh” di Amit Gilboa si leggono queste parole: “Phnom Penh è un festival anarchico di prostitute, droga a buon mercato e frequenti violenze e tutto questo stride con l’architettura, la musica e le recenti tragiche vicissitudini del Paese. Per un viaggiatore che proviene da una moderna società occidentale, è una città, dove l’immoralità diventa accettabile e l’insano diventa quotidianità….” Al mio arrivo, la città era avvolta in una luce buia e tetra, mi sono fatto portare al “Walkabout Hotel” sito all’incrocio fra le strade  51 e  174, consigliato sia da Ian che da numerosi “report” trovati sul w.w.w.

 

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