Le  nostre  conoscenze su questo  popolo  derivano  da  tre fonti: dall’interpretazione di bassorilievi come questi, CambogiaDiario12.jpg (7686 byte)dalle iscrizioni in pietra e dalle narrazioni del viaggiatore cinese Zhou Daguan. Il momento più emozionante si ha quando si arriva al terzo livello, dove si trovano le gigantesche teste di pietra scolpite su 54 torri. Su ognuna di loro, in direzione dei punti cardinali, ce ne sono quattro, per un totale di 216. Queste facce hanno una strana espressione assomigliante ad un sorriso smorzato, definito da Jenneratde Beerski come il “sorriso d’Angkor” e rappresentano l’onnipresenza del re Jayavaram VII. Tra la costruzione d’Angkor Wat ed il Bayon ci sono meno di cento anni di differenza, ma il primo è l’antitesi del secondo: uno è un grande complesso con un armonioso equilibrio di proporzioni fra torri e gallerie, l’altro, situato al centro della città, è arroccato su se stesso, come una chiesetta al centro del villaggio. Per vedere con attenzione tutti questi monumenti, gli intarsi e i bassorilievi, per “leggerli” e capirli ci vorrebbero settimane, non i miei tre giorni. Anche qui la gente che “s’impadronisce” del Bayon mi mortifica, perché rende il posto meno speciale, ma basta andare nelle zone meno visitate e non c’è più nessuno. C’è un caldo secco e non si respira, camminare fra le pietre roventi è faticoso, sembra che il corpo si sciolga addosso.

Dopo essermi “prosciugato” fra “La Terrazza del Re Lebbroso e quella degli Elefanti”, il Phimeanakas e il Baphuon, sono tornato a Sieam Reap e ho pranzato in un ristorantino. Sono ripartito per le rovine Khmer, Yuth mi aveva portato in regalo vecchie banconote cambogiane e oggi pomeriggio indossava la maglietta del Parma, mi ha parlato dei suoi trascorsi calcistici, quando frequentava l’universitàCambogiaDiario13.jpg (7377 byte) a Phnom Penh. Sono andato al Ta Phom, costruito da Jayavaram VII nel 1186 e dedicato a sua madre, regno incontrastato dei pappagalli, della giungla e degli altissimi e lucenti alberi che con le loro radici, grandi come gomene, avvinghiano tutto come se avessero le mille braccia di una piovra. Osservo il posto come lo videro nel 1866 il suo scopritore Doduart de Lagree e gli archeologi della “Scuola Francese dell’Estremo Oriente” che decisero di lasciare tutto immutato e di non restaurare nulla: piante e radici di fico, alberi di baniyan e di kapok emergono tra le pietre.

E’ un po' la “rivincita” della natura sul mondo degli uomini, una natura distruttrice e costruttrice: distruttrice perché le radici s’impossessano dei templi fino a distorcerne le forme e a farli crollare, costruttrice perché cementifica muri instabili che altrimenti crollerebbero. Ci sono ovunque massi franati, costruzioni in perenne bilico, in balia del volere della natura. Un’iscrizione ci dice che fra queste mura vivevano 12.640 persone, fra cui 18 sacerdoti, 2740 preti, 2232 assistenti e 615 danzatrici e fra i tesori del tempio c’erano piatti dorati per un peso di oltre 500 chili, 35 diamanti, 40.620 perle, 4.540 pietre preziose, 876 pezzi di stoffa provenienti dalla Cina, 512 coperte di seta e 523 parasoli: sicuramente questi numeri sono esagerati, ma indicano l’importanza del luogo. Sono poi andato al Ta Keo che assomiglia ad una piramide a gradoni e ho concluso la giornata sulla collina che ospita il Phnom Bakheng, da dove si vede Angkor Wat in lontananza.

Dopo una doccia sono andato verso il centro di Siem Reap, avevo fame ma non trovavo nulla di mio gradimento, CambogiaDiario14.jpg (8351 byte)c’erano ristorantini dall’aspetto “europeizzato” che offrivano le stesse cose: hamburger, patatine, omelette, pancake e qualche piatto di un “vago sapore orientale”, frutto di una mescolanza di cucina thai, cinese e vietnamita. Ero rassegnato ad entrare in uno di questi posti, quando ho “scoperto” un ristorantino all’aperto frequentato da Khmer. Qui mi sembrava di essere in Asia e non in una città europea: tutte le pietanze erano ben in vista ed era possibile fare degli assaggi prima di ordinare. Ho scelto riso in bianco, verdure e pollo al ginger.

Alle nove di sera il posto si è svuotato e sono andato al “Martini Pub”, un locale “doppio” perché all’esterno fanno musica Khmer dal vivo, l’interno invece è una discoteca. Fra i tavoli passano continuamente le cameriere con grossi cestelli per il ghiaccio, il loro compito è di riempire i bicchieri degli avventori: i frigoriferi sono pochi ed è l’unico modo per tenere fresche le bevande. All’interno, la discoteca alterna musica “Techno” a quelle tradizionale Khmer. Alcune ragazze hanno un numero appuntato sul petto, si possono “affittare” per ballare o perché si siedano a parlare. Per questi “servizi” sono pagate “a tempo”. Sono rimasto all’aperto, ma non sono riuscito a terminare la birra annacquata dal troppo ghiaccio e alle dieci ero già a letto.

La mattina successiva, Yuth era in strada ad aspettarmi, siamo partiti per Banteay Kdei. L’entrata di questo tempio buddista era ben tenuta, ma all’interno sembrava che muri ed arcate stessero in equilibrio per miracolo. Ho con me il libro di Dawn Rooney, ma non disdegno d’avere come guida i bambini che si offrono come ciceroni: dare loro qualche centinaio di Riel è un obbligo, CambogiaDiario15.jpg (7094 byte)anche se i più esigenti vorrebbero un dollaro. Pie, la mia piccola guida di nove anni che parlava un buon inglese, continuava a ripetermi “gave me one dollar”. Tappa successiva al Thommanon e poi al Preah Khan che una volta era un monastero buddista ed un centro d’insegnamento. All’entrata ci sono asuras e devas, che come ad Angkor Tom tengono fra le mani il corpo di un naga, sul muro di cinta invece, è scolpita con ripetitività la figura di un garuda, la creatura fantastica con corpo da uomo e ali da uccello. Sembra che tutto stia per crollarti addosso, è un posto affascinante, con i lunghi corridoi, i giochi di luce ed i chiaroscuri che la fanno da padrone, ma con il passare dei secoli sono rimaste in piedi solo le gallerie. Sono tornato al Bayon, la luce era splendida e di turisti, grazie al caldo atroce che saliva dalle pietre, nemmeno l’ombra. Oggi le teste di Jayavaram VII ed il loro famoso “sorriso d’Angkor” sono tutte per me. Anche qui la luce ha una valenza fondamentale, se cambia, tutto sembra diverso e il luogo assume un aspetto gioioso o drammatico. A mezzogiorno ho mangiato con Yuth in un ristorantino davanti al tempio.

La meta del pomeriggio sarà Banteay Srei, “La cittadella delle donne”, definita come “gemma preziosa e gioiello d’arte Khmer”, un capolavoro d’eleganza, dove le figure scolpite nella pietra non sembrano opera degli uomini ma degli Dei. Questo complesso costruito nel 967 Dopo Cristo, 50 anni prima d’Angkor Wat, è quello meglio preservato, assomiglia ad un tempio in miniatura, in confronto alle gigantesche proporzioni di ciò che ho visitato fino ad ora. Il tempio dista 25 chilometri da Siem Reap, Yuth mi metteva una fretta pazzesca, CambogiaDiario16.jpg (6720 byte)io volevo fare tutto con calma e non capivo questa frenesia. Yuth ha giocato l’ultima carta, dicendomi che il pomeriggio il tempio era chiuso causa “pericolo banditi”, ho risposto che se fosse stato inaccessibile saremmo tornati indietro. Volevo andarci di pomeriggio, quando la luce del sole diventa più calda e i colori sono talmente indescrivibili da sembrare falsi, infatti, il materiale di costruzione non è la laterite nera, ma la pietra arenaria rosa che fa assomigliare la costruzione ad un opera scolpita nel legno: qualcuno dice che le pietre di Banteay Srei “odorino di sandalo”.

Abbiamo corso come pazzi, arrivando a destinazione in meno di quarantacinque minuti, la strada non era asfaltata ma in terra rossa e abbiamo “mangiato” un sacco di polvere. Ci sono turisti cambogiani e monaci, venuti con camion o carri trainati da trattori. Molte sculture sono copie, alcune sono senza testa o sono state trafugate, gli originali si trovano al museo di Phnom Penh. La gente incolpa i Khmer Rossi, ma le razzie erano già iniziate dai francesi, gli scopritori di questi luoghi. Sulla via del ritorno ci siamo fermati in altri due templi: prima all’Est Melbon, un’altra rappresentazione del Monte Meru che si trovava su un’isola in mezzo al baray orientale (il lago ormai prosciugato, la cui acqua serviva per irrigare i campi), e poi al Preah Rup. Dopo le visite al Bayon e a Banteay Srei tutto il resto è meno emozionante. Ho terminato la giornata seduto su un masso d’Angkor Wat per vedere il tramonto. Il sole ha iniziato a colorare il cielo di un rosso carico, ma poi è miseramente annegato  sotto una   folta  coltre  di  foschia.

 

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