Damenglong

Nel tardo pomeriggio sono arrivato a DamenglongYunnanDiario_18.jpg (settanta chilometri da Jinghong), cittadina famosa per la Pagoda Menfeilong e la Pagoda Nera.

Colpisce sempre il paesaggio: la strada sterrata si snodava per una vallata coltivata a riso che ora si apriva, ora si chiudeva, con colline ricoperte dagli immancabili alberi di caucciù. C’erano molte vasche quadrate per la pescicoltura, qua e là spuntavano templi aguzzi d’influenza birmana, il confine è a pochi chilometri. Differentemente che negli altri villaggi, i contadini non lavorano nei campi, ma giocano a majong o a carte, seduti sotto il patio delle case palafitta. Agli angoli delle strade, le donne vestite alla birmana, con lunghe gonne colorate e camicette sgargianti, comprano frutta e verdura su improvvisate bancarelle.

Il proprietario dell’alberghetto di Damenglong parlava solo cinese e non era facile comunicare. Ho cenato in uno dei ristorantini che davano sulla strada principale, erano illuminati da luci talmente fioche che era impossibile vedere quello che c’era nel piatto. Ho ordinato noodles fritti, come sempre, la cuoca ha fatto un segno d’assenso con la testa, poi ha portato una grande zuppiera contenente spaghetti in brodo. Da bere ho ordinato birra, che la cameriera è andata a comprare in un vicino negozio, poi sono andato a dormire.

Ho fatto colazione con un dolce arrotolato di colore viola, stopposo e difficile da deglutire, che per forma ricordava una girella Motta. Da bere invece, ho preso uno strano succo rosso che conteneva palline di caramello, disgustato ho gettato tutto nel cestino della spazzatura. Dopo avere chiesto molte indicazioni e dopo avere fatto inutilmente avanti e indietro per la strada principale, sono riuscito a noleggiare una bicicletta alla “Damenglong guest house” situata all’interno di un anonimo condominio.YunnanDiario_19.jpg Il gestore era un uomo anziano, magro come una canna di bamboo. Non so da quanto tempo non le noleggiasse, perché erano impolverate e con le gomme sgonfie. Sono salito in sella ad una bicicletta cinese di colore nero, con l’enorme campanello, senza cambio e con i freni a bacchetta. Per la pesantezza dà un senso d’indistruttibilità e l’ho battezzata “Lunga Marcia”.

Ho iniziato a pedalare tra valli coltivate a riso e colline di caucciù, fermandomi a curiosare nei templi buddisti. Visti dall’esterno assomigliano a grandi abitazioni, all’interno sono anonimi e solo le statue dorate del Buddha ricordano la sacralità del posto. Il luogo è utilizzato per mangiare e i pavimenti sono occupati dai letti dei monaci. Qui mi hanno regalato involtini arrotolati nelle foglie di banano che contenevano riso cotto con le arachidi e riso dolce.

Guidato dal suono di gong e tamburi ho raggiunto un villaggio, nella piazza principale, si stava radunando una piccola folla per partecipare ad una processione. Nessuno arrivava a mani vuote: i più portavano alberi finti con fiori e foglie di carta colorata che ricordavano alberi di natale carichi di doni. Dai rami pendevano banconote, confezioni di dentifricio, dolciumi e caramelle: tutte regalie per i monaci del tempio. Ben presto si è formato un fiume colorato di persone che al ritmo della musica, si è diretto verso il tempio sulla collina. Qui alcune ragazze hanno iniziato a ballare in cerchio, i loro movimenti ricordavano le danzatrici Thai e le Apsara dei templi Khmer. Dopo la danza, i monaci hanno impartito la benedizione e i fedeli hanno portato le offerte all’interno del tempio.

Abbandonati i festeggiamenti, sono stato alla pagoda Manfeilong: si trova in cima ad una collina e perYunnanDiario_20.jpg raggiungerla occorre affrontare una ripida scalinata. Anche qui ti chiedi dove sei capitato, perché la pagoda in stile birmano, ricorda le guglie del Duomo di Milano: al centro svetta un chedi, un alto pinnacolo con ai lati quelli più bassi. Per ultimo, ho visitato la Pagoda Nera, non è nulla di speciale e contrariamente al nome, è dorata. Tornato a Jinghong ho dormito al Banna Hotel: ormai sapevo dove chiedere una camera a prezzo scontato!

 

Jinghong

L’indomani volevo visitare la foresta pluviale di Mandian, considerata la più spettacolare dello Yunnan, ma pioveva e Orchidea, la proprietaria del Mei Mei Café, mi ha sconsigliato la visita, infatti, sarebbe stato impossibile addentrarsi e percorrere i sentieri sterrati. Ho ripiegato sulla riserva naturale del fiume Sancha, un parco dove vivono gli elefanti bianchi. La valle degli elefanti selvaggi (Yuxianggu) si trova ad una cinquantina di chilometri da Jinghong. All’interno del minibus, l’umidità è ai massimi livelli: c’è chi fuma, chi mangia, chi sputa e si raschia la gola, io sudo copiosamente, ma vale la pena venire fin qui.

L’avamposto del parco è squallido, ci sono animali in cattività e spettacoli di danze tribali, poi arriva il pezzo forte. Si sale su una bidonvia lunga più di due chilometri che passa sopra la foresta: l’esperienza è entusiasmante perché si fluttua sopra quest’oceano verde. Sotto di te, si dipana un intrigo d’alberi di bamboo, di liane e rampicanti che ricoprono gli alberi fin quasi a soffocarli. Al livello del terreno invece, c’è un tappeto di foglie verdi e ti viene voglia di tuffarti dentro. Dopo trentacinque minuti si arriva ad una collina e s’inizia a camminare tra sentieri sopraelevati che attraversano fiumi colore mattone. NonYunnanDiario_21.jpg mancano i cartelli che invitano a prestare attenzione, vista la presenza degli elefanti bianchi che come da copione, vedi solo in fotografia.

Lijiang

In un’ora di volo sono arrivato in una Lijiang avvolta nel buio. Ho dormito al First Bend Inn, un alberghetto ricavato in un’antica casa Naxi con un bel giardino interno.

Ero stato Lijiang undici anni fa ed ero curioso di rivederla. La città vecchia, all’interno della quale non si poteva circolare, era illuminata in modo scenico e perfetto, l’acqua dei canali rifletteva il nero del cielo ed esaltava i colori della notte. Le luci arancione e le lanterne rosse in carta di riso, mettevano sapientemente in risalto la bellezza delle case e i portoni di legno, cosicché pensavo di essere in una città finta o su un set di un film. Tutto era perfetto e nulla fuori posto, tutte sensazioni inimmaginabili per una cittadina cinese!

Questa non era la Lijiang che ricordavo, quella che avevo conosciuto, non esisteva più. Ho sperimentato, forse per la prima volta, il significato della nostalgia dei tempi passati, non la conoscevo e ne avevo sentito parlare solo nei racconti della nonna. Se avessi visto Lijiang per la prima volta, ne sarei rimasto affascinato, avendola rivista così, mi ha lasciato un ricordo agrodolce. In periferia, lontano dai negozi sfavillanti e luccicanti, la città non è stata fagocitata dal business, si vedono pochi turisti, abitazioni e ristorantini non ancora trasformati in alberghi o botteghe, persone intente in umili lavori: c’è la sarta che utilizza la finestra di casa come se fosse un atelier, chi vende sull’uscio pannocchie lesse o patate fritte.

La cittadina turistica invece, è conservata in modo magnifico, è accattivante, le pietre delle stradine appaiono come levigate,YunnanDiario_22.jpg le case nello stile Naxi hanno tutte i tetti a pagoda, ma il posto ha perso in genuinità. C’è ancora qualche donna Naxi vestita negli abiti tradizionali blu cobalto, con in testa il buffo cappello da ferroviere e la gerla sulle spalle. Una volta erano ovunque, come gli uomini che si ritrovavano a chiacchierare, a fumare, a bere il the verde e a giocare a mahjong, che indossavano vestiti nello stile di Mao o divise militari, che avevano strani copricapi tipo colbacchi, barbe lunghe da uomini sapienti e la pelle dura cotta dal sole. Mi ricordavo le strade sterrate, il fascino di “Piazza Mao”, il mercato degli asini e dei cavalli e le donne in costume che vendevano frutta ed ortaggi agli angoli delle strade. Provo un pò di rimpianto per questi cambiamenti e per le tradizioni che vanno scomparendo, mi chiedo che cosa provino gli anziani di fronte all’avanzata del progresso.

Lijiang non sembra una città per i Naxi, ma un luogo nato per soddisfare i bisogni dei turisti. Ho continuato a camminare per le stradine invase dai gruppi di cinesi e giapponesi. Nelle ore di punta la calca è talmente tanta che camminare qui, è peggio che sfidare le calli veneziane nei giorni del carnevale.

Sono stato alla torre Wan Gu Lou, si trova in cima ad una collina che domina la città vecchia. Vedere quest’ammasso di case con i tetti a pagoda fa venire in mente un luogo del passato che sa d’antica Cina, ma questa sensazione scompare subito. Nelle vicinanze c’è la residenza del Signor Mu, una cittadella costruita nello stile della “Città Proibita” di Pechino, utilizzata dalla famiglia che regnò sulla città per ventidue generazioni. Il vociare dei cinesi, il mal di piedi ed il caldo non mi hanno fatto gustare il posto nel modo giusto, inoltre si cammina per viuzze tutte uguali e spesso ci si perde, perché non è facile orientarsi.

Baisha

L’indomani ho inforcato la bicicletta e mi sono diretto verso il villaggio di Baisha (che significa sabbie bianche), sperando di incontrare Shi-Xiu, un arzillo vecchietto dall’età indefinibile, conosciuto undici anni fa. Pedalando, osservavo le montagne incappucciate, i campi coltivati a granoturco, i cavalli che brucavano nei campi e che trainavano carretti, le donne Naxi con le gerle sulle spalle, i bambini che giocavano per strada e che ti salutavano stupiti: questa era la Lijiang che ricordavo.

Con gran sorpresa il medico era vivo, identico a quello incontrato undici anni fa. Alcuni loYunnanDiario_23.jpg definiscono un ciarlatano, altri un benefattore, una specie di “dottore sociale”, lui invece, ama definirsi dottore taoista, però è chiamato da tutti Dottor Ho. Ero scettico e curioso: i miei ricordi erano di un pomeriggio passato in modo pittoresco. La piccola clinica creata nel 1985 si era ingrandita: oltre al locale che conteneva le erbe medicinali, ce n’era uno di rappresentanza, dove troneggiava un computer collegato ad Internet. Bruce Chatwin parlò di lui in un articolo sul “The Times”, chiamandolo “Il leggendario dottore taoista della montagna innevata del drago di giada” e da quel momento, crebbe la sua fama.

Indossa un camice bianco e un berretto di lana blu e ti accoglie dicendo: “Salve, sono il Dottor Ho, avrai sicuramente sentito parlare di me”. La stanza dove mi riceve, più che una clinica rurale sembra una “hall of fame”, con biglietti da visita, articoli di giornale, attestati di benemerenza e stima ricevuti da ogni parte del mondo, certificati medici e lettere di pazienti che grazie al suo famoso the, sono guariti da gravi malattie. Ha poi preso un foglio di carta spiegazzato e mi ha detto: “Guarda questa lettera, parla di un uomo americano che è guarito dalla leucemia bevendo il mio the alle erbe. Anche l’ospedale dove è stato curato mi ha chiesto spiegazioni. Chi è venuto qua mi scrive per avere ancora del the, glielo invio gratuitamente e non chiedo nulla.

 

                                      1   2   3   4   5    | Diari Index