Al centro del parco c’è la dimora della famiglia, che risale alla dinastia Quing. Non riesco a descrivere questa costruzione di ventimila metri quadrati perché è un labirinto, simile ad una “Città Proibita” in miniatura. Ogni stanza è collegata alle altre da porte a soffietto che raggiungono i padiglioni: sembrano tutti uguali ed è difficile orientarsi. In una c’era un negozio di cineserie gestito da un uomo dai capelli lunghi e arruffati che assomigliava ad un cantante rock degli anni settanta. Tutto era bello ma costoso, così mi sono limitato a curiosare tra le pergamene e i paesaggi a china.

La giornata è terminata visitando il “Ponte dei dragoni gemelli”, una costruzione nello stile Janshui che sorge alla confluenza tra i fiumi Lu e Tachong. E’ a diciassette archi, ha due torri simili a pagode e dista cinque chilometri dalla città. La taxista che mi ha accompagnato rideva in modo isterico e non sembrava intenzionata a portarmi.

Jejiu

Dopo una doppia spremuta di mango, sicuramente la migliore di tutto il viaggio, ho preso l’autobus per Jejiu. In due ore, attraverso vallate coltivate, sono arrivato nella città dello stagno. La sua estrazione iniziò sotto la dinastia Han e tuttora l’attività incide per il 95% sull’economia del posto. Jejiu si trova incastonata tra le montagne, il paesaggio ricorda un luogo alpestre, ma balzano all’occhio l’incuria delle abitazioni ed i palazzi con enormi inferriate.

Al calare del sole, quest’atmosfera cupa e grigia svanisce e il luogo cambia volto, Jejiu non assomiglia più ad una città di terz’ordine, ma ad una sfavillante Las Vegas. Tutto è un luccichio: alberghi e grattacieli dispensano sciabolate di luci laser e non è da meno l’illuminazione dei locali karaoke e delle case che si affacciano sul lago. Le finte palme luminescenti e le strade addobbate con ghirlande colorate ricordano un parco giochi. Quando mi sono ricordato che dovevo cenare, era già tutto chiuso e mi sono dovuto arrangiareYunnanDiario_8.jpg con quello che offrivano le bancarelle: semi di girasole e salsicce agrodolci.

Ho dormito alla “N° 10 Guest House”, che contrariamente al nome, non era una modesta pensione, ma un Hotel a cinque stelle e per un prezzo ridicolo ho avuto una stanza meravigliosa. In ogni albergo, anche nel più misero occorre lasciare una cauzione: generalmente è di 50 Y, ma qui ammonta a 250 Y. Al momento di lasciare la stanza viene restituita: dalla recepiton telefonano al piano dove alloggi e un’addetta va a controllare che tutto sia a posto! Nel prezzo dell’albergo era compresa la colazione, così mi hanno portato un menu in cinese. Ovviamente non sapevo cosa ordinare e il cameriere ha rotto gli indugi, decidendo per il sottoscritto: anguria a fette e un’enorme ciotola di brodosi noodles di riso con tofu. Più affamato di quando mi ero seduto, ho raggiunto in ovovia la vetta del monte Quiling che domina Jejiu. Di notte la vista sulla città è fantasmagorica, di giorno invece, è un triste ammasso di palazzi. Ho raggiunto la stazione dei bus, passando per i vecchi quartieri che si trovano attorno al monastero Baohua, ma ormai le antiche abitazioni stanno lasciando il posto ad anonimi palazzi.

Kunming

Volevo arrivare a Jinghong direttamente da Jejiu, ma per la mancanza di collegamenti sono tornato a Kunming e domani vedrò come raggiungere la capitale dello Xishuangbanna. Sono andato a dormire al Camellia Hotel, mitico luogo decantato da tutte le guide per backpakers, concedendomi, dopo sei ore di viaggio, una bottiglia di “Birra Dali” ghiacciata e un’immangiabile insalata di frutta, con al centro maionese e ciliegie all’aceto! Alla mattina, dopo un’immensa colazione al buffetYunnanDiario_9.jpg del Camellia, ho comprato un biglietto d’aereo per Jinghong scontato del 50%, evitando ventiquattro ore d’autobus.

Nei parchi di Kunming c’è chi gioca a majong e a dama, chi suona strumenti musicali, chi canta e fa balli collettivi. Però appena alzi gli occhi, vedi una città anonima con grattacieli e centri commerciali e fai fatica a capire come possano coesistere l’anima della tradizione e del progresso. Se imbocchi una piccola via ti stupisci per gli odori, per i venditori di frutta, per le anonime rosticcerie che offrono spiedini, wanton e tofu fritto, poi cambi ancora direzione e ti ritrovi davanti ad un enorme Mc Donald’s. E’ sempre presente il contrasto tra il vecchio ed il nuovo, sono due mondi apparentemente distanti anni luce, ma uniti, come un uomo e la sua ombra.

Ho iniziato a percorrere la Dongfeng Donglu fino alla Nanping Jie, due arterie stradali a sei corsie: questa è la zona commerciale della città con grattacieli di vetro, fast food americani e negozi sportivi che fanno il verso ai prodotti delle multinazionali dello sport. Negli enormi department store sembra che la gente entri solo per curiosare, la prova è che i commessi vagano sfaccendati per gli enormi padiglioni. L’abbigliamento occidentale e i prodotti tecnologici giapponesi hanno prezzi superiori a quelli praticati in Italia, quelli “Made in China” invece, sono a buon mercato e di buona fattura. Quest’abbondanza è inspiegabile per noi occidentali, ancorati ad un’idea di Cina ancora fuori dall’economia di mercato. Colpiscono i centri commerciali dedicati all’abbigliamento: i modelli femminili sono un po’ retrò e ricordano quelli indossati da donne di mezza età, altri sembrano confezionati con pezzi di tappezzeria oYunnanDiario_10.jpg stoffe per divani. Quelli maschili sono più moderni e le griffe fanno il verso alla moda italiana e francese. Il logo e il nome più copiato è quello d’Armani ed esiste tutta una serie di nomi di fantasia, che fanno venire in mente le storpiature che si leggono nelle storie del giornale a fumetti “Topolino”.

I richiami all’Italia e all’uso della bandiera tricolore sono numerosi e bisognerebbe informare il Presidente Ciampi, per questo affetto per nulla disinteressato. Ho notato i marchi Baleno, Mila Armani, Jevoni, Vasto, Giordano, Guccimuccia, Giorgio Vasari, Velsace, Versino e Veisus che ha un proprio sito: www.ital-versino.com/. Ampio successo hanno le marche francesi (Goldillon, Luis Long, Richini, Valentino Coupeau), mentre gli Stati Uniti sono staccatissimi con U.S. Polo Association.

Jinghong

Nel pomeriggio ho preso l’aereo e mi sono catapultato nell’umidità di Jinghong: la cittadina non è affascinante e assomiglia ad una piccola Kunming con tanti locali karaoke, negozi che vendono souvenir e banche. Solo le palme e l’odore dolciastro dei fiori ricordano che ci si trova in una zona tropicale. La notte ho dormito al Banna Hotel, per mancanza di clienti la camera era scontata del 50%. Orchidea, la proprietaria del Mei Mei Café, il posto dove ho fatto colazione, mi ha consigliato di visitare il mercato della domenica di Menghun e quello del giovedì di Xiding, poi ho preso il minibus per Ganlaba (45 chilometri).

Ganlaba

Dal finestrino osservo la valle e le montagne verdissime tagliate in due dal fiume Mekong, che ricordano una lingua di terra rossa in movimento o un’autostrada colore granata, che corre tra palme e coltivazioni d’ananas. A Ganlaba si vedono le abitazioni dellaYunnanDiario_11.jpg popolazione Dai, case rialzate che poggiano su piloni di legno simili a palafitte. Ho pernottato al Ristorante Sarlar, l’unico tetto disponibile per la notte. Era un’abitazione Dai, composta da un gran salone che fungeva da ristorante, dalla cucina e dalle stanze per gli ospiti: spartani cubicoli con un semplice materasso.

Mentre facevo il bucato mi è accaduta una cosa buffa. Il piano d’appoggio per lavare i vestiti, poggiava sulla vasca da bagno coperta da un grande asse. Il sapone mi è caduto nella vasca e ho cercato di recuperarlo. Con uno scatto felino ho ritirato la mano perché avevo sentito dei movimenti. La vasca era popolata da pesci vivi del Mekong, pronti per la padella e la loro vita dipendeva dall’appetito degli avventori del Ristorante Sarlar! Dopo avere cenato con noodles e verdure ho fatto quattro passi. Locali karaoke, dancing e sale giochi, erano l’offerta della “Ganlaba by night”. La sorpresa è stata il potere guardare il cielo stellato finalmente sgombro da nubi. Era di una lucentezza abbacinante e la via lattea sembrava tridimensionale.

Di buon mattino mi sono incamminato verso il mercato e ho fatto colazione con grandi ravioli. Li avevo chiesti fritti, ma il cuoco, pur annuendo con la testa, me li ha serviti in brodo. Poi ho noleggiato una bicicletta e ho traghettato il Mekong, dirigendomi verso le colline ricoperte dagli alberi di caucciù. Dalla corteccia incisa a spirale, uscivano lentamente gocce biancastre, che si raccoglievano in una piccola ciotola. La futura gomma veniva versata in grossi bidoni di latta e gli uomini chini sui bilancieri, li portavano ai centri di raccolta. Qui il caucciù veniva pesato e versato nelle cisterne dei camion.

 Camminando nell’erbaYunnanDiario_12.jpg bagnata della piantagione, mi è entrata una sanguisuga nelle scarpe. Mi sono accorto dell’ospite indesiderato solo dopo qualche ora, quando il piede sanguinava e l’animaletto ormai sazio, si era staccato dal piede. Assomigliava ad un piccolo lombrico che si gonfiava quando strisciava. Ho pedalato fino al tramonto tra campi di riso e villaggi Dai, il paesaggio faceva venire in mente uno spot pubblicitario per promuovere il paradiso terrestre. Anche i contadini che lavoravano nei campi sembravano comparse, ingaggiate dall’ufficio del turismo cinese per rendere più idilliaca la mia pedalata. La cena si è contraddistinta per una birra Lancang ghiacciata (Lancang è il nome del Mekong) e un piatto di pesce farcito con aglio ed erbette.

 

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