Alla mattina ho fatto colazione con noodles fritti, poi ho costeggiato il lago e da un’entrata secondaria ho raggiunto il Mengbala Banna Xiwang, un parco per turisti, dove vivono le minoranze di questa provincia. Il prezzo d’entrata era esorbitante, così ho aggirato la biglietteria, grazie al passaparola di chi l’aveva già visitato. Le case sono ben tenute e i villaggi si assomigliano, fuori delle abitazioni gli indigeni vendono frutta e oggettistica tribale. I templi buddisti sono belli e ricchi d’oro e nel teatro del villaggio si organizzano danze per i turisti, tutto però sa di finzione.

Nel pomeriggio sono tornato a Jinghong e ho raggiunto il villaggio di Menghun, perché domani si tiene il mercato della domenica. Il paesaggio è nuovamente cambiato, la valle costeggiava un fiume che per l’impeto delle acque faceva concorrenza al Mekong. Grosse chiatte in bamboo, dotate di potenti e rumorosi motori pescavano la sabbia dal fondo del fiume. La vegetazione era rigogliosa e la stretta strada in salita era intasata da minibus, trattori e camioncini.

In queste valli si coltiva in altezza: oltre al caucciù e ai terrazzamenti di riso, si vedono le coltivazioni selvagge di the, ossia quelle disposte “qua e là” senza un ordine preciso. Le varietà prodotte nella regione superano la trentina e si coltiva il famoso “The Imperiale”, bevuto dagli imperatori della dinastia Quing e il “Pu-erh” coltivato dalle minoranze Dai da più di 1.700 anni. In ogni città ci sono negozi specializzati: il più venduto è quello nero, il più curioso è quello compresso in grandi pani neri che lo fa assomigliare allo sterco delle mucche. Non mancano quello verde, quello al gelsomino, tisane a base di bocciolo di rosa e fette di limone, solo per fare qualche esempio.

Menghun

Lasciata Menghai, siamo arrivati a Menghun, una città di frontiera con le strade di terra, poche abitazioni in cemento e molte in mattoni di paglia e fango. Ho dormito al White Tower Hotel, un posto fatiscente dal nome pomposo. La reception dell’Hotel era unaYunnanDiario_14.jpg cascina nella quale viveva la locandiera, indaffarata nel dare da mangiare ad anatre e polli che starnazzavano nell’aia. C’erano una decina di stanze, utilizzate dai commercianti che partecipavano al mercato della domenica, erano laide e odoravano di stantio e muffa. Davanti alle stanze c’era uno stagno abitato da rane e per raggiungere i bagni all’aperto, occorreva percorrere uno scivoloso sentiero. Le docce erano un semplice tubo di ferro a forma d’elle dal quale scendeva acqua ghiacciata, che nel cadere a terra, finiva direttamente nei WC. Così, sia per evitare contaminazioni organiche sia per l’olezzo, non ci ho messo piede.

Di buon mattino mi sono avviato verso il mercato che si tiene in un gran capannone. Le donne vestivano con abiti sgargianti appartenenti alle diverse etnie: alcune avevano una giubba scura con in testa un asciugamano, una specie di turbante che ricordava i saraceni, altre, vestite di nero, indossavano eleganti cappelli che le facevano assomigliare a cortigiane del rinascimento italiano. Altre ancora portavano sulle spalle un cesto: era unito alle spalle da un basto che ricordava quello che si mette agli asini. Le rappresentanti della tribù Lahu indossavano vestiti scuri, abbelliti da motivi geometrici colorati e bizzarri cappelli ricoperti di perline, collanine, monete e borchie argentate. Infine c’erano le giovani donne in cerca di marito, vestite con abiti sgargianti dai colori accesi. Erano truccatissime e tra un ammiccamento e una risatina, si spostavano in gruppo, soffermandosi tra i banchi dei vestiti e dei prodotti di bellezza. Era singolare vedere tanta grazia e femminilità in un posto simile, tra donne con le facce incartapecorite, mondineYunnanDiario_15.jpg (60440 byte) abbigliate con calzamaglie e stivali di gomma, venditori d’animali, di frutta e verdura.

A mezzogiorno sono andato a Daluo, lungo il confine Birmano. Per cinquanta chilometri ho visto il più bel paesaggio dello Xishuangbanna: si susseguivano pianure coltivate a riso e campi terrazzati, talmente perfetti da sembrare finti e villaggi rurali attorniati dalle colline ricoperte d’alberi di caucciù. Sono andato a vedere “l’albero che guarda la foresta”, un baiano gigante che copre un’area di centoventi metri quadrati. Di là dal confine, un’enorme pagoda brillava sotto il sole, qui sono stato assalito dai venditori birmani che proponevano giada, pietre preziose, sigari e banconote.

Ho camminato tra le case con i tetti a pagoda, fino ad arrivare alle risaie, percorrendo le rive che delimitano i terrazzamenti. Dal terreno saliva un caldo umido e si sudava copiosamente, però il paesaggio e la vegetazione tropicale erano talmente belli da farti dimenticare tutto. Alcuni ragazzi con una fionda, miravano ad un alveare d’api che si trovava in cima ad un albero. Volevano fare cadere il favo che conteneva il miele selvatico, poiché dalla vendita si poteva ottenere un discreto guadagno. La mira era imperfetta e anch’io ho provato a fare qualche tiro, poi un ragazzo ha tentato di arrampicarsi sull’albero, quando le api hanno iniziato a spazientirsi, ho salutato gli improvvisati cacciatori di miele.

Menghai

In minibus sono andato a Menghai e ho pernottato in un hotel dal nome impronunciabile, il Wen Xun Chu. La cena con verdure e riso fritto è stata abbondante, mi sono sorpreso quando hanno portato il gelato mentre mangiavo il riso, un diversivo gradito da tutti gli avventori, tranne che dal sottoscritto. L’indomani sono andato a Jingzhen, un villaggio a quattordici chilometri da qui, noto per il “Padiglione ottagonale”, una pagoda costruita nel 1701 e danneggiata durante la Rivoluzione Culturale. I nuovi affreschi riportano una strana scena in cui il Buddha sconfigge l’esercito di Mao. L’esterno del tempio è in muratura, l’interno in legno invece, è spoglio e in condizioni precarie, come la maggior parte dei templi visitati fino ad oggi. Piccoli monaci vestiti d’arancione oziano e si aggirano stancamente tra gli edifici senza combinare nulla, alcuni giocano, fanno la doccia o guardano la televisione. A Mengzhe ho visitato altri due templi, qui i contadini, muniti di rudimentali rastrelli di legno, spargono il riso sull’asfalto per farlo seccare piùYunnanDiario_16.jpg velocemente.

 

 

Xiding

A Xiding ho trovato alloggio in un albergo simile al White Tower Hotel: per lavarsi c’era una stanza con bidoni colmi d’acqua stagnante e per prenderla, si utilizzava un mestolo in bamboo. I bagni invece, erano in comune con gli abitanti del paese, ma dopo l’incontro con un grosso topo nero, ho preferito prendere la via dei campi. In Cina i bagni pubblici sono casupole in cemento o in mattoni di fango con all’interno le turche dove ci si accuccia. Una variante è quella formata da tanti box, sotto i quali vedi scorrere un canale, una monorotaia nella quale finiscono i rifiuti organici. Ti può capitare di vedere la produzione del vicino ed avere per sottofondo i suoi rumori intestinali.

All’ora del tramonto mi sono incamminato per i sentieri che portavano alle colline coltivate a the. La vista spaziava sulla vallata, sulla pianura dal colore dei campi di riso e sulle montagne. La cena si è fatta attendere a lungo, perché nell’unico ristorantino di Xiding, c’era un banchetto organizzato per un gruppo di militari dell’Esercito della Repubblica Popolare Cinese. I camerieri erano impegnati a soddisfare i loro desideri culinari e per oltre un’ora, non mi hanno degnato nemmeno di uno sguardo. Dalle cucine uscivano piatti appetitosi, così ero costretto a guardare le pietanze che mi scorrevano sotto gli occhi. Ho ingannato l’attesa sgranocchiando semi di zucca e di girasole. In sostanza, ho fatto un aperitivo da volatili! L’attesa non è stata vana perché sono arrivati riso fritto, funghi porcini e verdure arrostite.

Di notte, sentivo il grugnire dei maiali e le urla di un gruppo d’uomini che volevano entrare nella stanza accanto, occupata da fanciulle che non erano per niente intenzionate ad aprire la porta. Ero venuto a Xiding per vedereYunnanDiario_17.jpg il mercato che si tiene il giovedì, ma avevo sbagliato giorno, così ho incontrato solo qualche donna che vendeva verdure ed enormi scrofe nere che rovistavano nella spazzatura. Piove a dirotto e sono immerso nella nebbia, sembra di essere a novembre e mi chiedo che cosa ci faccio in questo posto.

Il primo bus per Menghai sarà a mezzogiorno, così mi sono dovuto rassegnare ad aspettare. L’attesa è stata lunga e noiosa, intervallata dagli sputi e dai raschiamenti di gola dei cinesi che mangiavano zuppe brodose e fumanti. Una scrofa faceva su e giù per le vie del paese, somigliava ad un rinoceronte e la immaginavo essere la mascotte del posto.

Ho fatto l’autostop, ma nessuno mi ha dato un passaggio, i guidatori degli automezzi che cercavo di fermare, facevano una specie di saluto, tipo un “ciao” con la mano destra e dicevano “mei you, mei you” (no, no!). Esasperato da quest’attesa, mi sono messo ad elencare alcuni aspetti, che ritrovo quotidianamente nell’uomo cinese. Ama mangiare zuppe fumanti a tutte le ore della giornata, che insaporisce con aglio e peperoncino. Non disdegna una miriade di pietanze e sembra insaziabile.

Ama sputacchiare sonoramente ovunque si trovi: predilige la strada, il bus e la tavola. Tali esercizi sputatori sono seguiti da numerosi raschiamenti di gola che ricordano i gargarismi.

Ama il risucchio ed il gorgheggio. Il massimo, l’ottiene quando mangia zuppe e minestre. Talvolta è silenzioso come un gattino che beve il latte dalla ciotola, talvolta cerca di imitare il suono del tuono. C’è il risucchio flautato e quello prorompente, quello lento e prolungato. Ama insinuarsi ovunque ci sia una fila: alla biglietteria ti passa davanti con noncurante indifferenza, ti fa salire la rabbia in corpo e vorresti schiacciarlo come una mosca fastidiosa.

Ama dare risposte ambigue o non darle per niente. Quando vede che ti avvicini si spaventa e cerca di sfuggire al tuo sguardo, se persisti, ti guarda storto dicendo “mei you, mei you”.

Ama urlare al telefono cellulare, forse perché non ha capito che è un portatile. Pianure e colline sono disseminate dai ripetitori e in ogni paese c’è almeno un negozio della rete d’operatori locali: China Telecom, China Mobile, China Unicom. Sembra che la politica intrapresa sia di evitare le postazioni fisse nelle abitazioni: anche qui il cellulare è una conquista di massa.

Ama indossare calzini bianchi o trasparenti unisex. Il calzino corto è un “must”, amato da uomini e donne. L’uomo, per mostrarli meglio, alza i calzoni fin sopra il polpaccio. Se deve sopportare lunghe attese può iniziare a giocare con le calzature, tenendone una giocosamente in mano, mentre si gratta l’alluce.

Ama i giochi d’azzardo: il majong, la dama cinese, le carte, insomma qualsiasi gioco dove si possa puntare del denaro.

Ama i bagagli: affronta il volo aereo carico come un mulo, con valigie, pacchetti e pacchettini. Trasporta ogni ben di Dio: dalla frutta, ai souvenir, ai piccoli elettrodomestici. All’imbarco possiede lo scatto del centometrista e preme per salire per primo, ignorando che i posti sono assegnati. Al momento dell’atterraggio, scatta come una molla, si avventa sulle proprie cose e occupa i corridoi d’uscita, restando poi stoicamente in piedi, nell’attesa dello sbarco.

 

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