Dalla cima della collina la vista è impagabile e in lontananza s’intravede il famoso ponte che collega l’isola con Butterworth, oggi c’è foschia e sembra che questi emerga come un fantasma dalle nebbie. Nel braccio di mare tra Georgetown e Butterworth è un continuo andirivieni di traghetti, la città è invasa da alte ed enormi costruzioni e solo il centro storico (a parte la torre Komitar) n’è immune. Quassù la quiete è totale, questo è il regno degli uccelli cinguettanti e delle coppiette alla ricerca di un po’ d’intimità, ci sono anche tanti venditori di cibo e souvenir, un giardino botanico, una moschea, un tempio indù e un albergo: il “Bellevue”, costruito alla fine del diciottesimo secolo. Da qui partono tanti sentieri che costeggiano i villini e le costruzioni d’epoca coloniale, anche Francis Light non rimase immune al fascino dal luogo e si fece costruire una casa, nel cui giardino coltivava fragole importate dal nativo Suffolk.

Tornato a Georgetown sono andato all’Esplanade, il sole stava tramontando e decine d’aquiloni (wau) volavano liberi nel cielo, era bello vedere assieme tutti questi “oggetti volanti”, mi sono ricordato di quando mio zio aveva costruito per me un aquilone di balsa, che si era subito liberato dal filo ed era volato via. Gli aquiloni mi hanno sempre affascinato perché li vedo volare liberi nel cielo e sembrano felici, così quando un venditore mi ha proposto di acquistarne uno non ho resistito: era un grande aquilone con i colori dell’arcobaleno, costruito a mano con stoffa e bambù. Appena tornerò a casa lo proverò e penserò ai cieli blu della Malaysia. Il costruttore, un abile artigiano, mi ha mostrato articoli di giornale che parlavano della bontà delle sue creazioni: fare volare aquiloni è un passatempo per grandi e piccini. Un altro svago (per adulti) è il gioco della trottola, le trottole non sono gli oggetti minuscoli che si tengono nel palmo di una mano, sono enormi, le più grandi possono raggiungere il peso di sette chili. Sono le cosiddette trottole “da combattimento”: si fanno addirittura apposite gare il cui scopo è l’eliminazione di quelle avversarie dal campo di gioco.

Anche stanotte la città è un caleidoscopio di colori: per le tante insegne multicolori e per quelle al neon, per via delle lanterne e delle lampadine che addobbano le vie. Sono andato a cenare in Lebuh Chulia, oggi dopo la colazione al “Tempio dei Serpenti” non avevo mangiato nulla tranne dei gustosi snack indiani che assomigliavano, per forma, alle crocchette dei gatti. Ho scelto un ristorantino indiano: ho ordinato “roti canai”, il pane non lievitato, saltato e cotto sulla piastra, pollo al curry e noodles. Il cuoco sembra lavorare malvolentieri, lancia stancamente gli ingredienti nell’enorme wok e “gratta” con una spatola l’interno della pentola come se dovesse pulirla, i suoi modi sono talmente bruschi che per terra ci sono ovunque pezzi di cibo. L’addetto al “roti” invece, sembra più professionale ed è specializzato nel preparare uova in tutti i modi possibili e dei panini che schiaccia sulla piastra bollente, una volta pronti assomigliano a dei grandi toast; con la pasta del roti fa anche delle enormi frittelle rotonde, gonfie d’aria come palloni. Nei ristorantini per strada non esistono né tovaglioli né rotoli di carta igienica e si rimane sempre con le mani unte: male che vada, per pulirsi, c’è la maglietta! Come dolce ho comprato da una bancarella una granita di ghiaccio fumante (see kuo t’ng), ricoperta di frutta fresca e disidratata.

Sulla via del ritorno sono passato davanti al “Eastern and Oriental Hotel”, chiamato anche “E & O Hotel”, un bell’hotel in stile coloniale, originariamente di proprietà dei fratelli Armeni Sakri, che possedevano anche l’Hotel Raffles di Singapore e l’Hotel Strand a Rangoon. Ho curiosato qua e là e osservando i tappeti persiani, i lini, l’antico mobilio, il pavimento in tek e i tanti specchi, pensavo che mi sarebbe piaciuto soggiornarci almeno per una notte, poi ho scacciato questa idea dalla testa, perché mi aspettava la camera del “D Budget Hostel”.

Di buon mattino ero con lo zaino in spalla, c’era poca luce perché stava iniziando ad albeggiare, mi sono diretto verso il porto, dove c’era il ferry per Butterworth. Una curiosità è che il biglietto si paga da Butterworth a Georgetown, mentre il ritorno verso la terraferma è gratuito. La stazione ferroviaria e quella dei bus sono davanti all’imbarcadero, mi sono diretto a quella dei bus da dove ci sono coincidenze per tutto il Paese. La stazione è fatiscente perché l’edificio delle biglietterie è in ristrutturazione, così ci sono tante piccole “biglietterie” collocate sotto tendoni o sotto cubicoli in lamiera ed il caos regna sovrano. Si cammina tra gli imbonitori che urlano le destinazioni e si fa lo slalom tra i gas di scarico degli autobus in partenza.

Ho preso un biglietto per Ipoh, chiamata “Città delle buganvillee”, il viaggio di 173 chilometri è durato due ore, abbiamo percorso un’autostrada liscia e ben tenuta che evitava il caos dei centri abitati, tutto attorno c’era una vegetazione lussureggiante. Ho comprato un biglietto per le Cameron Highlands (da Ipoh ci sono due bus al giorno che fanno il percorso  in due ore e trenta) e mi sono dedicato alla visita della città. Sono nello Stato del Perak, uno dei più ricchi e più antichi della penisola, le cui fortune sono dovute alla estrazione dello stagno. Qui vicino, nella valle del Kinta ci sono alcuni dei più ricchi giacimenti al mondo.

Ipoh

La città, con il suo mezzo milione d’abitanti è la seconda della Malaysia, popolata soprattutto dai cinesi di Canton, molti dei cui progenitori lavoravano nelle miniere di stagno. L’edificio “simbolo” della città è la stazione ferroviaria, una costruzione in stile coloniale dei primi del 1900 chiamata il “Taj Mahal” d’Ipoh perché ricorda l’architettura moresca. E’ una stazione “fantasma” ed i treni sono rari: al primo piano c’è il “Majestic Station Hotel”, costruito nello stesso stile. Ho visitato la “Moschea dello Stato”, un brutto edificio moderno con tante cupole, al primo piano c’era la gran sala di preghiera, mi sono seduto sulla moquette verde pisello per beneficiare dell’aria condizionata, molti fedeli hanno avuto la mia stessa idea e i più n’approfittano per schiacciare un pisolino.

Oggi Ipoh è una città deserta, è domenica e tutti osservano la “regola” della festa dal venerdì alla domenica, fa caldo ed è aperto solo un “Department Store”. All’interno ci sono soprattutto adolescenti e mi sembra di vedere i ragazzi che riempivano il “Gurney Plaza” di Georgetown, ho ordinato una ciotola di “laksa”. Ho poi ripreso a camminare per la città vuota. Visitare le città nei giorni di festa è disarmante, Ipoh sarebbe da vedere nei giorni feriali quando la vita commerciale è in pieno fermento, con le botteghe gestite da cinesi ed i negozi in stile coloniale: vedere tutto desolatamente chiuso è inappagante. Quando un posto ti piace e ti nutre d’emozioni, tutto il tuo “ego” ne beneficia, psicologicamente ed emotivamente sei “in uno stato di grazia”, quando invece il luogo è scarso d’emozioni, sia lo spirito sia il corpo ne risentono, e così, la città visitata in questo modo, mi ha trasmesso poco o nulla.

Ho raggiunto una zona con alcuni bar nascosti da assi di legno sistemate alla bella e meglio, in prossimità d’alcuni scantinati di grandi palazzi, gli avventori erano cinesi e c’era qualche raro mussulmano. Erano serviti piatti della cucina cinese e la birra, versata nei bicchieri con l’aggiunta di ghiaccio, scorreva a fiumi. Le bottiglie ormai vuote, erano messe in bella mostra sui tavoli, come testimonianza di una competizione alcolica senza vincitori: si beveva la “Tiger” di Singapore, ma c’era anche qualche bottiglia di Carsberg. Era triste, vedere tutti questi uomini che passavano la giornata festiva a bere birra con le gambe sotto il tavolo.

 

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