Non ero venuto fino a qui per visitare il centro commerciale, ma per raggiungere la zona di Began Jermal dove c’è il più famoso “Hawker Centre” serale della città. Le mie attese non sono state tradite, ogni bancarella proponeva un qualche cosa d’appetitoso, alcune offrivano pesce in pastella da friggere in enormi “wok colmi d’olio bollente, in altre i piatti erano preparati all’istante e bastava guardare ed indicare con il dito cosa si voleva. Ho scelto granchi fritti, seppie con germogli di soia e noodles con gamberetti, come dessert un rojak, una macedonia di frutta fresca e disidratata sulla quale avevano versato una crema di cioccolato fondente con semi di sesamo. In un angolo del piatto hanno messo una cucchiaiata di salsa piccante al peperoncino.

L’aspetto culinario dell’isola di Penang è uno dei punti di forza del soggiorno, molti mi avevano parlato della bontà della cucina dell’isola, mentre i commenti sulle sue bellezze erano discordi. Per tanti, la visita rappresentava una bella esperienza, ma per i più era una delusione ed il ricordo di un luogo privo d’identità. Questo deriva dalle attese che uno ha, se sono troppo entusiastiche spesso occorre ricredersi. Io stavo nel mezzo, ero curioso di vedere Georgetown ed ero un po’ prevenuto, ma forse per questo motivo, ho trovato quello che mi aspettavo. Mi ha affascinato la Georgetown coloniale, quella parte della città non ancora stravolta dai grattacieli in vetro ed acciaio, con i piccoli vicoli dove si svolge la tranquilla vita di tutti i giorni, i templi taoisti nascosti tra le case, le piccole stradine piene di negozietti gestiti da cinesi ed indiani ed i cuochi in ciabatte e canottiera che preparano i noodles sui marciapiedi.

La mattina successiva ho preso il bus per raggiungere il “Tempio dei Serpenti”, chiamato anche “Tempio della Nube Azzurra”, si afferma che in questo tempio le vipere velenose (crotalidi), tramortite e drogate dagli effluvi dell’incenso, pendano innocue dagli alberi e dagli altari: per i fedeli, i serpenti rappresentano “sacre rappresentazioni” delle divinità. Il bus mi è passato sotto il naso, mi sono sbracciato e l’ho rincorso a lungo ma non è servito a nulla e così ho aspettato il successivo. Oggi è una giornata calda e secca e nell’aria c’è un odore d’incenso e d’India, per le strade si aggira qualche cane, i negozi aperti sono pochi. E’ sabato, un giorno festivo (i mussulmani festeggiano il venerdì, ma la “serrata” si protrae fino a domenica).

In un’ora sono arrivato al tempio che si trova a sud di Georgetown, vicino all’aeroporto, appena fuori la cittadina di Bayan Lepas. Il paesaggio non è esaltante, osservo gli sforzi fatti per raggiungere il “benessere”: le villette, i condomini “a misura d’uomo” ma anche gli enormi “casermoni alveare”, noto anche l’assenza di quartieri ghetto, tipici di tante città non solo asiatiche. Di fronte a queste bianche costruzioni rese accecanti dalla luce del sole, mi chiedevo quale prezzo avessero pagato i malesi, abituati da secoli alla vita tranquilla dei kampong (villaggi) per avere stravolto abitudini e modi di vivere: queste idee mi frullano in testa ancora una volta, per l’idea di un “Oriente arcaico”, in stridente contrasto con quest’Oriente moderno e sviluppato. Ho fatto colazione con noodles e caffè freddo (“coffee ice” come dicono qui), nessuno pasteggia con acqua, tutti si dissetano con succhi di frutta, caffè o con una specie di cappuccino ghiacciato: sono tutte fantastiche e rinfrescanti, ma berle quando si mangiano cibi speziati non è proprio il massimo!

Il “Tempio dei Serpenti” fu costruito nel 1850 in onore di un monaco buddista, un famoso guaritore chiamato Chor Soo Kong, all’entrata non c’è biglietto ma si è obbligati a fare una donazione “fintamente volontaria” alle guardiane, che oltre a riscuotere il pedaggio vendono bastoncini d’incenso e candele, acquistate in grandi quantità dai fedeli. All’interno c’è un albero con qualche serpentello intontito ed avvinghiato ai rami, un fotografo è pronto ad immortalarti con uno o più serpenti appesi al collo. Il tempio è brutto e moderno e la visita è stata deludente, gli unici “brividi” sono stati provocati dalla lettura dei cartelli che ricordavano che i serpenti erano vivi e non bisognava molestarli, che chi li toccava lo faceva a proprio rischio e pericolo e che ai “medium” era vietato cadere in trance.

Sono tornato a Georgetown ed ho preso il bus per andare al Tempio di “Kek Lok Si” (Tempio del Paradiso) che si trova vicino ad Air Itam. Questo è il più grande insediamento buddista della Malesia, la sua costruzione (iniziata nel 1890 è terminata dopo venti anni) fu voluta da Below Lean, un buddista cinese che giunse qui dalla provincia del Fukien. Il complesso si trova appollaiato su una collina, ci sono pagode e padiglioni con i tetti arancioni in stile cinese, da lontano si nota l’enorme statua dorata di Kuan Yin e un’alta torre a forma di pagoda, chiamata “Pagoda dei diecimila Buddha”, famosa per i suoi tre stili architettonici: la base è cinese, la parte centrale thailandese e il tetto in stile birmano. Il tempio è diviso in tre parti per onorare Kuan Yin (la Dea della misericordia), Bee Lay Hood (il Buddha ridente) e Guatama Buddha (il fondatore della fede); per arrivare al tempio occorre percorrere un mercato coperto che s’insinua per stradine strette che si inerpicano su per la collina.

Più che un luogo sacro sembra un bazar dove si vende di tutto: unguenti, oggetti portafortuna cinesi, Buddha di plastica, monili mussulmani, jeans, magliette e cibo. In occasione del nuovo anno (che si festeggia in relazione alle fasi lunari e cade sempre in febbraio od in marzo) le bancarelle vendono cestini con monete false, sono degli oggetti portafortuna ed un segno di prosperità. Nel mezzo della salita c’è una grande vasca circolare, i fedeli (per lo più cinesi) lanciano nell’acqua verde e putrida pane, biscotti e verzure, un centinaio di tartarughe stanno a mollo nell’acqua con il muso rivolto all’insù in attesa di essere sfamate, sembrano soddisfatte di questo trattamento privilegiato.

Il tempio è un’orgia di colori che stupisce e stordisce, ogni spazio è addobbato con lanterne in carta di riso gialle e rosse, ovunque emergono pagode, torri, padiglioni: per l’impatto cromatico e le forme architettoniche fiabesche, sembra di essere in un parco giochi e guardi tutto come se possedessi gli occhi di un bambino. L’unico sconcerto è che ti trovi in Malaysia, un Paese a maggioranza mussulmana, che non è certo la culla del Buddismo. Il tempio inferiore è un complesso quadrato con all’interno statue dorate del Buddha, alle pareti la sua figura è scolpita o disegnata in modo ripetitivo e sempre uguale, ovunque volgi lo sguardo vedi il Buddha nelle sue molteplici posizioni o vedi scene della sua vita. Si prosegue camminando tra archi di pietra che collegano i vari padiglioni, anche qui è un trionfo di sue raffigurazioni: ora seduto tra i fiori, ora in piedi, ora nel centro di una fontana, nella cui acqua nuotano carpe multicolori; nell’aria gli altoparlanti diffondono musica sacra che ricorda la “New Age”. Sono arrivato ad uno sbarramento, c’era una monaca seduta, era muta e non diceva nulla, per lei parlava un cartello che affermava che le offerte “volontarie” servivano al mantenimento del tempio. Come al “Tempio dei Serpenti”, anche questo era un “pedaggio obbligatorio” per proseguire nella visita. Ho percorso ancora padiglioni colorati e un curioso giardino pensile da cui pendevano zucche gialle, c’erano anche un recinto con conigli (un portafortuna) ed un ristorante vegetariano, l’ultima tappa è stata l’ascesa alla “Pagoda dei Diecimila Buddha”, dalla quale si gode una bella vista su Georgetown.

Con il bus sono andato alla collina di Penang (Penang Hill), da dove parte la funicolare (inaugurata nel 1923) che porta alla vetta e che con i suoi 830 metri sovrasta la città. C’è molta gente, la maggior parte delle donne mussulmane indossa ampi vestiti colorati o con fantasie dai colori accesi, le più “integraliste” portano un velo di colore bianco o nero attorno al viso, alcune sono leggermente truccate e c’è chi usa il rossetto. Le altre, soprattutto quelle d’origine cinese si vestono all’occidentale, con pantaloncini o gonne strette e magliette attillate che n’esaltano le forme minute. Quelle d’origine indiana invece, si vestono anch’esse in modo informale, sono di corporatura robusta e gli abiti non ne evidenziano le forme, le più anziane invece, indossano il sari (il tipico vestito indiano). Gli uomini (a parte gli indiani e i mussulmani che indossano larghe camicie e pantaloni con ampi sbuffi) si vestono tutti allo stesso modo, non li riconosci dai vestiti, ma dai visi che rappresentano marchi indelebili.

 

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