Ormai tutti possediamo un’idea  “sbagliata e stereotipata” dell'Oriente, ma quest’Oriente, come noi lo immaginiamo nella nostra testa, non si trova certo in Malaysia, forse lo troveremo in Cambogia, in Laos o in Birmania, ma non certo qui, dove c'è un Oriente moderno, un Oriente che ci fa "inorridire" e ci fa riflettere su dove diavolo siamo capitati.

Isola di Penang

Il viaggio per raggiungere l’isola di Penang è durato cinque ore, non abbiamo preso il ferry che la collega alla terraferma per ventiquattro ore al giorno, ma il ponte costruito nel 1985, che con i suoi tredici chilometri e mezzo è il più lungo del Sud Est Asiatico ed il terzo al mondo per lunghezza. A causa dell’alto prezzo del pedaggio la gente preferisce prendere il traghetto che arriva direttamente nel cuore della città. Quando siamo arrivati nella vecchia Georgetown le mie impressioni sono cambiate, le vie erano male illuminata da lampioni che emanavano una fioca luce dal colore giallo ed il quadrilatero formato da Lebuh Chulia, Lebuh Pantai, Lebuh Pitt e Lebuh Light era come un’enclave che, nonostante il passare del tempo, aveva conservato tutto il suo fascino e la sua vecchia anima. Era come se stessi facendo un viaggio all’indietro nel tempo e che qui si mescolassero culture e tradizioni diversissime tra loro: case basse e palazzi in stile Vittoriano, vie con le tradizionali botteghe a due piani gestite da cinesi, insegne misteriose, chiese cattoliche, templi Indù e Taoisti, profumi d’incenso, di curry e sentori d’India, odori di cibi diversissimi tra loro, donne velate e uomini con tuniche e vestiti vaporosi. Nello stesso tempo mi sembrava di essere a Goa, a Calcuttao a Nanchino, insomma tutto l’opposto, che il ritrovarmi in un Paese a maggioranza mussulmana.

Sono riuscito a cambiare qualche dollaro, così ho messo in tasca i miei primi Ringgit e ho trovato una stanza al “D Budget Hostel”, al n. 9 di Lebuh Gereja (chiamata anche Church Street), un piccolo hotel senza troppe pretese. Ho abbandonato in camera lo zaino e sono andato a piedi verso il cuore della Georgetown storica: verso la chiesa di St. George, il più vecchio tempio anglicano del Sud Est Asiatico, ma soprattutto verso l’Esplanade, un grande spazio erboso (utilizzato in occasione di feste come il Capodanno Cinese e di Chap Goh Mei), contornato da bei palazzi in stile coloniale come il Municipio, la Corte Suprema e la biblioteca della città. Mi trovo vicino al forte Cornwallis, il luogo che ricorda l’arrivo di Francis Light che sbarcò sull’isola nel 1786 e che ne prese possesso per conto della Compagnia delle Indie Orientali. Light chiamò la capitale Georgetown, in onore del Re della Gran Bretagna Giorgio III. Prima dell’arrivo degli inglesi l’isola era pressoché disabitata, Light offrì protezione al sultano del Kedah che come contropartita la cedette agli inglesi. Costoro avevano un assoluto bisogno di una base d’appoggio navale nel golfo del Bengala (come rifugio durante il monsone di nord est), di un punto d’approvvigionamento per le navi della Compagnia in rotta verso la Cina (impegnate nel commercio del tè, dell’oppio e delle spezie), e di una base per ipotizzare un’eventuale futura supremazia nelle acque del Sud Est Asiatico. Le fortune dell’isola terminarono nel 1832 quando Singapore si sostituì a Penang come centro dei traffici inglesi e questa divenne la capitale delle “Colonie nello Stretto”. L’isola crebbe ancora in importanza attorno al 1850 con la scoperta dei giacimenti di stagno nella vicina terraferma e grazie al boom della gomma d’inizio secolo.

Oggi l’isola costituisce lo Stato di Penang, è retta da un governatore nominato dal re della Malaysia, ed è uno dei tredici stati della confederazione malese.  L’isola non ha solo un passato coloniale: la zona del porto, i negozi e le attività commerciali sono nelle mani dei cinesi. Assieme agli inglesi arrivarono anche i “Sepoys”, gli indiani al servizio degli eserciti europei e i commercianti indiani, che come i cinesi, non abbandonarono più l’isola. Ancora oggi quartieri come “Little India” o “Chinatown”, mantengono inalterato un fascino che ricorda i legami con il passato.

Vicino all’Esplanade c’erano tante bancarelle illuminate come alberi di natale che vendevano pesce, crostacei, frutta e bevande colorate: grandi cartelli scritti a mano indicavano che qui si servivano laksa (zuppa con spaghettini in brodo in salsa di cocco), nasi goreng (riso fritto), ketupat (riso bollito avvolto in foglie dell’albero del cocco), satay (spiedini di carne), rendang (carne al curry), rojak (insalata di frutta e verdure) e gulu melaka (dolce di sago affogato nel latte di cocco), tutti termini che avrei imparato nei giorni successivi. Ho ordinato un gran piatto di molluschi, riso con gamberetti al curry e un impasto d’uova di pesce. A tavola c’è chi mangia con le mani ed il rutto è libero, mi guardo attorno e mi stupisco per questo crogiolo di razze, per i tanti visi con gli occhi a mandorla, per i mussulmani dalla pelle scura, per volti che sembrano provenire dall’India del Sud o dallo Siri Lanka. Dopo cena sono tornato in camera e mi sono addormentato.

Alla mattina sono andato in Lebuh Pantai, una via con piccoli uffici cambiavalute gestiti da Indiani e banche collocate in edifici in stile Vittoriano. Gli interni sono asettici e pieni di luce, le impiegate indossano impeccabili tailleur colore panna e lavorano in un ambiente simile a quello della “City” di Londra. Solo quando ti passa accanto una donna velata (poche per la verità), ti ricordi dove ti trovi. Ho iniziato a camminare per la zona del porto, da dove partono i traghetti per Butterworth, ci sono tanti cartelli con gli ideogrammi e nella lingua malese ed il caldo è devastante. Dopo avere visitato il tempio indiano di “Sri Mariamman”, famoso per le elaborate sculture che formano un gopura all’entrata (una torre piramidale con Dei e animali), mi sono rifugiato in un tempio cinese, apprezzato per gli efficienti ventilatori a pale. Sono poi stato alla moschea “Kapitan Kiling” costruita alla fine del 1700 in stile indiano, ha un singolare minareto di colore giallo che ricorda una torre campanaria. L’integrazione religiosa sembra totale, templi indù e cinesi, chiese cattoliche e moschee sembrano convivere in perfetta simbiosi.

A piedi mi sono diretto verso il Komitar, un centro commerciale visibile da ogni parte della città, costruito ai piedi di un obbrobrioso grattacielo di sessantacinque piani a forma circolare, con negozi alla moda e piccole botteghe. All’interno non mancano i “Pizza Hut” o i “Mc Donald’s”, ma c’è sempre un qualche cosa, tra negozi di bigiotteria femminile, d’oreficeria e di DVD falsi, che ti ricorda “ancora” che qui sei in Asia. Ho camminato per la Jalan Sultan Ahmad Shah, una lunga via che costeggia il mare e ho raggiunto un altro centro commerciale chiamato “Gurney Plaza”, con boutique griffate e bei negozi. Nulla, a parte i volti della gente, ti ricorda che sei nel Sud Est Asiatico. Non finisco mai di stupirmi per tutta questa opulenza, per i vestiti che più che coprire il corpo femminile sembrano fatti apposta per scoprirlo, per la mancanza assoluta di donne con la testa avvolta in foulard e per l’utilizzo smodato di telefoni cellulari. Il “target” è adolescenziale, imperano spalle nude, calzoni alle ginocchia, jeans attillati, timide minigonne, “make up” e portamenti provocanti, che ti ingolosiscono, come caramelle da scartare.

La mia idea di un Paese popolato da donne velate e vestite con abiti formali (i Mussulmani rappresentano pur sempre la maggioranza della popolazione, anche se la zona maggiormente islamica è la costa orientale) deriva da un’idea rafforzatasi nella mia testa, dopo la tragedia delle Torri Gemelle dell’11 settembre, di un Occidente buono e sviluppato, “Paladino e rivelatore della Verità” e di un Oriente Mussulmano barbaro, retrogrado e sottosviluppato. Mi ha colpito la “globalizzazione” dell’universo giovanile: l’abbigliamento, il modo di imporre il proprio “look”, i ritrovi e i gusti dei giovani di Georgetown sono gli stessi dei coetanei di Bangkok, di Taipei, di Milano o di Londra. In quest’asettico centro commerciale, ho notato una tale assenza d’identità ed una totale “uniformità globalizzata” che mi hanno fatto riflettere e rabbrividire.

 

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