Arrivato a Luang Prabang ho cambiato alberghetto, sono finito alla “Phoun Sab Guest House”. Ho visitato il “Wat Mai Suwannaphumaham”, dove i monaci stavano finendo la preghiera della sera, qui mi sono intrattenuto a parlare con un novizio. Mi ha detto che i precetti da osservare nella disciplina monastica sono duecentoventisette e mi ha spiegato come si svolge la giornata: ci si sveglia alle quattro del mattino per pregare, all'alba c’è la questua per le strade, poi colazione e pranzo (occorre osservare la regola di non mangiare dopo mezzogiorno). Seguono studio, lavoro e meditazione, l'ultima preghiera è alle sei di sera e alle dieci si va a dormire. Ho visto tramontare il sole davanti ad un piatto di pollo al ginger e la notte ho dormito profondamente.

Alle sette di mattina ero già in piedi. Dopo una visita al mercato, sono andato alle Poste e ho richiesto che mi timbrassero le cartoline: questa è una precauzione che adotto sempre nei viaggi. Ho poi visitato il laboratorio della gioielleria “Thithpeng Maniphone” che forniva monili in argento alla famiglia reale fino al 1975, ora uno dei migliori acquirenti, è la famiglia reale thailandese. Al mercato “Talaat Dala” ho acquistato un falcetto e una mannaia con i manici in bambù e due lumini a petrolio, costruiti con scatole di latta.

Ho visitato il “Wat Mai Suwannaphumaham” con la facciata ricoperta di bassorilievi dorati raffiguranti la vita del Buddha, e le colonne decorate d’oro su campo blu. Il palazzo reale invece, è stato trasformato in museo, l'orario d’apertura è particolare: dalle 8.30 alle 10.30 della mattina. Nel 1975 il “Pathet Lao” lo confiscò al principe Sisavang Vatthana e alla sua famiglia. In una pubblicazione, edita dal “Ministero dell'Informazione e della Cultura”, si afferma che il palazzo è stato "donato" dal principe al governo comunista. La costruzione è del 1904, il pavimento è in teak e bisogna entrare a piedi nudi, è bello camminarci sopra e sentire lo scricchiolio del legno. Mi hanno colpito il contrasto del pavimento scuro con i muri bianchi ed i mobili di legno chiaro, che danno un'idea d’armoniosità e di purezza di linee, conferendo luminosità all'ambiente. LaosDiario_23.jpg (22612 byte)

Ho poi visitato il tempio più bello, il “Wat Xieng Thong”, il cui nome significa "Il Monastero della Città d'Oro", costruito nel 1560, rappresenta il capolavoro nello stile “Luang Prabang”. In Laos ci sono altri due stili: il “Vientiane” e lo “Xieng Khuang”. L'interno è in legno: predominano il rosso mattone e l'oro, la luce entra dalle porte laterali e dal tetto, è un posto che affascina ed è bello soffermarsi a guardare i chiaroscuri. A fianco del wat c'è la cappella funeraria, è una costruzione ricoperta d'oro, che risplende sotto il sole del mezzogiorno. Qui ci sono le urne funerarie della famiglia reale: le cercavo ma non le vedevo. Mi sono accorto che erano delle specie di “coppe dorate”, alte più di due metri, collocate sopra un carro funebre da trasporto, alto più di dodici metri.

Nel pomeriggio sono andato a fare una "sauna tradizionale alle erbe”, il posto era in una costruzione in legno risalente al periodo francese. Il locale sauna era piccolissimo, non si vedeva nulla e all'interno non c’entravano più di cinque persone. Faceva molto caldo e il vapore che saliva dagli augelli, era talmente aromatizzato, che pensavo di odorare come “un trancio di speck”. Ho bevuto due Beerlao in compagnia di Cristophe, un francese che domani farà il mio stesso itinerario (una tre giorni in barca sul Mekong verso il confine thailandese di Chiang Khong).

Per cena ho scelto il meglio, il ristorante dell'Hotel Villa Santi. Il suo chef è il figlio di Phia Sing, il cuoco personale dell'ultimo Re del Laos, autore anche di un libro in inglese sulla cucina Lao. Ho provato il menu degustazione, la tavola è colma di piatti di notevoli dimensioni e guardo con apprensione tutto questo ben di Dio. Da bere LaosDiario_24.jpg (17081 byte)ho ordinato la bevanda della casa: "Il ritorno del dragone", un cocktail a base di liquore di banana e vino di riso, il “khao kam”. Un tempo, questa era la residenza della moglie del Re Sisavong Vong e penso a come doveva essere la vita a corte d'inizio secolo. Tornato alla Guest House, mi sono addormentato, sotto l'effetto della Beerlao e del "Ritorno del dragone".

Verso Huay Xai

Di buon mattino ero al molo, c’era la barca per Huay Xai, che dista 300 chilometri da Luang Prabang, dove Thailandia Laos e Birmania s’incontrano. Questo collegamento è garantito tutti i giorni e si può scegliere fra le “Speed Boats” e le “Slow Boats”: le prime impiegano sette ore. Sono dei motoscafi leggerissimi dalla forma aguzza ed allungata, che montano motori dal rumore assordante. I passeggeri (non più di sei) indossano per ragioni di sicurezza, sia il casco che il giubbotto di salvataggio: più che un viaggio sembra un incubo. Le seconde sono più lente, utilizzate sia per raggiungere i villaggi che per trasportare merci: il viaggio dura due giorni e mezzo. Ho scelto la “Slow Boat” perché volevo viaggiare tranquillamente: la barca è una chiatta coperta, costruita con assi di legno che sobbalzano ad ogni movimento. I passeggeri non sono tanti, il poco spazio disponibile è utilizzato per le merci.

La barca naviga lenta, la corrente è forte ed il motore tossisce ed arranca continuamente, con me ci sono Cristophe, una coppia tedesca e inglese, un giapponese, una ragazza sudafricana dagli occhi di ghiaccio e qualche Lao. Ogni tanto ci si ferma, l'equipaggio conquista la riva con l'aiuto di lunghe canne di bambù. I villaggi, con le case dai tetti di paglia sono nascosti dalla vegetazione, talvolta incrociamo una “Speed Boat” che rompe il silenzio della navigazione e lacera i timpani. Il paesaggio è sempre uguale, le due rive sono coperte da una vegetazione impenetrabile ed intricata, con un’accozzaglia d’alberi che ti mette un po’ d’apprensione addosso, perché per chilometri vedi solo foreste inospitali. Qui non ci sono strade, l’unica via è il Mekong. Ogni tanto mangio una banana o un arancio verde come un limone.LaosDiario_25.jpg (17923 byte) I miei compagni di viaggio sono taciturni: c'è chi legge, chi gioca, chi dorme. Io mi adeguo: leggo o scrivo.

Verso il tramonto siamo arrivati al villaggio di Thanaua, la barca dopo nove ore ha spento il motore. Per scendere hanno gettato a terra due assi e occorreva fare delle acrobazie per rimanere in equilibrio: mi sono messo gli zaini in spalla e ho affrontato la passerella, finendo a mollo nel Mekong. Il mio gesto poco atletico, è stato rilevato dalle urla e dai lazzi dei locali. Una volta a terra, siamo stati smistati dagli uomini della tribù Hoon che ci hanno ospitato nelle loro abitazioni di legno e bambù. Gli indigeni erano ben attrezzati, in una grande stanza c'erano cinque materassi con zanzariera. Al villaggio non c'è nessuna comodità: manca l'acqua corrente e l’elettricità, il bagno è una latrina. Mentre mangiavamo riso agglutinato e noodles in brodo, tutti ci guardavano con occhi pieni di meraviglia e mi sentivo un marziano. I bambini non sapevano una parola d’inglese e non so se andassero a scuola. Mentre scrivo, la sudafricana dagli occhi di ghiaccio sta tentando di insegnare qualche parola inglese a tutta la comunità.

Mi sento strano e un po’ mi vergogno: per tutto quello che possiedo, perché quando tornerò nella vecchia Europa potrò contare su tante comodità che i Lao non hanno, ma anche per il repellente “anti zanzara” e le pastiglie contro la malaria, che posso utilizzare in caso di bisogno. Penso a chi siano veramente i barbari: questi indigeni che non hanno nulla o noi che abbiamo tutto? Qui ti senti solo e senza certezze: hai bisogno di un medico, ma non lo trovi. Per chilometri ci sono solo foreste e acqua. Oggi pensavo alla forza della corrente, a come la barca faceva fatica a domare gorghi e mulinelli, alla sua piccolezza rispetto all'immensità del Mekong, all’idea che potesse rovesciarsi. Mi chiedo se si possa parlare di noi, come viaggiatori imprudenti e sconsiderati, amanti del rischio e dell'avventura, quando per i Lao, questa è la quotidianità. La notte non ho usato il sacco a pelo, ma ho dormito nelle lenzuola che sapevano di muffa, utilizzando la zanzariera ampia e vaporosaLaosDiario_26.jpg (15665 byte) che si gonfiava ad ogni alito di vento. Un occhio ha iniziato a farmi male, era come se all'interno avessi un granello di sabbia e continuavo a lacrimare.

All’alba siamo tornati alla barca: i Lao fanno colazione con riso e vegetali, nello zaino avevo banane ed arance, che con un inatteso slancio di generosità, ho condiviso con il popolo dei viaggiatori. Tutti mi hanno ringraziato con un timido sorriso, per poi ripiombare nell’indifferenza più assoluta. Solo la bella sudafricana dagli occhi di ghiaccio sembra più loquace. Le nubi basse avvolgono le montagne, creando un’atmosfera da bruma settembrina. Abbiamo passato un villaggio, il primo visibile, e non nascosto dalla vegetazione tropicale. Le nuvole grigie, la luce ancora bassa e l'acqua colore mattone del Mekong mi ricordano i film sulla guerra del Vietnam. La lotta per risalire la corrente continua lenta e faticosa.

Arrivati a Pakbeng, che dovrebbe essere a metà strada fra Luang Prabang e Huay Xai, c’è stata concessa mezz’ora di libertà, n’abbiamo approfittato per mettere qualche cosa sotto i denti. Fa un caldo “impossibile”, dalle pietre sale un calore che ti toglie il fiato e il sole prosciuga il corpo. Ho chiesto riso con carne di bufalo che tarda ad arrivare, l'ora della partenza si avvicina e non ho ancora mangiato nulla, ho messo il riso in un sacchetto e l’ho portato con me. La barca si è popolata di nuovi passeggeri, di nuove merci, di sacchi di riso, di meloni gialli, di polli e di pulcini imprigionati nelle gabbie in bambù. Alle tante fermate, le operazioni di carico e scarico sono lunghe: nessuno protesta o si agita e tutto avviene lentamente, non c’è orario di partenza o d’arrivo. LaosDiario_27.jpg (19868 byte)I tempi si dilatano all'infinito e stiamo fermi a lungo in questi porti fantasma, dove il corpo s’impregna d’umidità e d’odore del Mekong. L'occhio continua a farmi male, faccio fatica a tenerlo aperto e oltre alle lacrime esce anche del pus, non deve essere un bello spettacolo da vedere.

Quando abbiamo attraccato al villaggio di Parkob, il motore della barca si è ammutolito: eravamo stanchi, sporchi, e desiderosi di una doccia, ma nessuno ci faceva affidamento. Il villaggio aveva una sola “Guest House” e non era attrezzata per ospitarci tutti. Dopo un po’, il proprietario si è deciso a mettere sul pavimento cuscini e materassi supplementari, abbiamo così avuto un giaciglio per la notte. Vicino al gabbiotto dei polli c'era una turca con doccia, pur essendo un posto nauseabondo e olezzante ho deciso di ripulirmi. Appena ho aperto l'acqua, è terminata e mi sono rimesso gli abiti puzzolenti. Per cena c'era riso con vegetali e Beerlao, poi sono andato a letto, non tanto per la stanchezza, ma per gli occhi che bruciavano come carboni ardenti e per l'assoluto bisogno d’oscurità. Mi sono guardato allo specchio, gli occhi erano due fessure e le guance erano così arrossate, da sembrare reduce da un incontro di boxe.

Alle cinque di mattina i primi galli hanno iniziato a cantare, dal Mekong arrivavano urla ruggenti, erano i potenti motori delle “Speed Boats” che si preparano a partire. Siamo partiti anche noi e a poco a poco ci avviciniamo "alla civiltà". S’iniziano a vedere più case e più campi coltivati, la riva sinistra del Mekong è già Thailandia. Da un lato sono contento di tornare in un Paese orientale più facile, dall'altro sento già nostalgia per l'ospitalità e la semplicità di questa gente, per i templi di Luang Prabang, per i misteri del “Piano delle Giare” e per avere vissuto queste giornate con ritmi poco occidentali.

A Huay Xai ho preso un “Tuk-tuk“ e sono andato al posto di frontiera. Mentre una tempesta d’acqua mi rendeva umido e appiccicaticcio, ho attraversato per l'ultima volta il Mekong, destinazione Chiang Khong. Un cartello indicava "Gate to Indo - China". Sono salito sul primo bus per Chang Mai: il Laos è già un ricordo, ma si tratta di un arrivederci, non di un addio.

 

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