Mi ha consegnato un “bicchiere/sacchetto” che nelle mie mani faceva “su e giù” come uno Jo-Jo. Avevo iniziato a contravvenire alle “regole del corretto viaggiatore”, che non dovrebbe utilizzare ghiaccio di indubbia provenienza, per di più tagliato da seghe arrugginite. Però anche la sete e la tua voglia di un qualche cosa di fresco hanno un prezzo: fortunatamente non sono stato “punito” da problemi gastrointestinali. In una bancarelle ho comprato “pollo ossuto” e riso cotto nel bambù: il riso era buono, ma aveva un sapore “indefinibile” e non capivo se era dolce o salato. Sono in un’altra “dimensione”, quello che mi sorprende è la semplicità e la genuinità dei Lao, la dolcezza dei loro sguardi ed il continuo stupirti per come ti sorridono, quando i loro occhi incrociano i tuoi. Ogni tanto mi ferma qualche Lao desideroso di parlare, il loro inglese è “limitato” e nonostante gli sforzi, più di tanto non si può fare: a prima vista queste persone sembrano spensierate e con dentro una gran voglia di vivere e comunicare.

In un battibaleno l’oscurità ha inghiottito il Wat Phu ed è scesa la notte, nell’aria continuano a volare ed ad attaccarsi alle braccia degli insetti neri che provocano un solletico fastidioso. Uno di questi è finito nel bicchiere della birra, con malavoglia mi sono alzato in direzione dei locali da ballo. Manca l’elettricità e poche bancarelle possiedono gruppi elettrogeni, la maggior parte utilizza lugubri lumini a petrolio. Nel tornare verso Champasak, ero così stanco che mi sono addormentato, nonostante la strada sterrata e buche che facevano sobbalzare il taxi collettivo. WatPhuDiario_6.jpg (8926 byte)Alla Guest House ho bevuto due “fruit shake”, poi ho fatto una doccia: come stamattina mi è rimasto tra le mani il rubinetto.

All’alba i galli hanno iniziato a cantare, poi è stata la volta delle urla di donne e bambini e della musica Lao, che già alle sette di mattina era irradiata a tutto volume. Ho fatto colazione al “Dok Champa Restaurant”, non si sono accorti della mia presenza per lungo tempo, non è un gran problema, a parte i brontolii dello stomaco. Sono andato al Wat Phu e ho iniziato a scattare foto, i soggetti maschili si fanno fotografare con entusiasmo e sembrano orgogliosi di mettersi in posa. Le bambine e le donne sono più restie, per eludere la diffidenza delle più piccole, basta un sorriso.

Il sole picchia forte, verso mezzogiorno mi sono messo a dormire sotto un albero, davanti al vecchio padiglione in rovina, fatto costruire dall’ultimo Re del Laos, Savang Vatthana per vedere il Festival. All’arrivo dei comunisti, il Re e la sua famiglia furono internati in un campo di rieducazione dal quale non uscirono vivi. Ho ricominciato a fotografare, mi concentro sui volti delle persone e bevo “Mirinda” colore verde smeraldo, mi sa che mi piace proprio! Sono salito al secondo livello del Wat, oggi le schiere di pellegrini che offrono fiori ed incenso alle varie divinità, ai “naga” e ai resti delle statue Khmer, formano un serpentone incessante ed osservo la loro gestualità. Il loro modo di pregare è “pacifico”, quando si accostano alla preghiera è come se lo facciano educatamente, senza volere disturbare nessuno, nell’aria è onnipresente l’odore dell’incenso.

Talvolta mi addentro nelle rovine del tempio, tocco le pietre nere in laterite od in arenaria, mi colpisce il modo in cui scottano. WatPhuDiario_7.jpg (5637 byte)Il tempio è in rovina, ma quando l’occhio inizia a familiarizzare con i chiaroscuri, vengono alla luce particolari inaspettati, come le forme spezzate di un “naga” o i bassorilievi che ricordano i templi Indù. La finezza delle sculture ed il cesello delle opere non sono paragonabili ad Angkor, ma il posto ha un suo fascino ed è interessante “viverlo” in questi giorni di festa.

Forse è azzardato venire a Champasak per il Wat, se non si ha uno spiccato interesse per l’arte Khmer, ma la visita in occasione della festa è un’ottima cosa. La luna sta sorgendo, le lunghe ombre degli alberi di frangipane s’impossessano dei resti del Wat, il nero della laterite contrasta e si fonde con il cielo che continua a scurirsi sempre più e un colore azzurrino rende l’atmosfera un po’ irreale. Nell’aria risuonano le risate dei bambini e a questi rumori trasportati dal vento, si mischia la musica delle sale da ballo all’aperto. Molti Lao sono venuti per partecipare alla festa: quando scambi qualche parola, ti chiedono perché sei venuto al Wat Phu e cosa pensi del loro Paese, se sei sposato e se hai figli. Il discorso si potrebbe complicare quando ti chiedono se ritieni che il Laos sia un Paese povero, a quanto ammonta il tuo stipendio e qual è il costo del biglietto aereo per venire qua. L’uomo con cui parlavo, un impiegato statale, guadagnava dodici dollari il mese.

Sono sceso verso la spianata della festa e sono entrato in un ristorantino, il proprietario si è presentato come maestro elementare, parlava un po’ di francese e ho rinverdito le mie conoscenze nella lingua di Voltaire. Ho ordinato una Beerlao, anatra alle verdure, pollo in brodo e riso agglutinato, il famigerato “stiky rise” che odio da impazzire. Talvolta penso alle comodità e all’abbondanza della vicina Thailandia, al suo cibo squisito ed alla necessità di adattarsi a questo Paese, ma se il Laos fosse la Thailandia perderebbe gran parte del suo fascino. Mi sono intrattenuto ancora un po’ ad osservare i padiglioni della festa, tutto come ieri è “immutabile” e le scene si ripetono come da WatPhuDiario_9.jpg (7523 byte)copione: ci sono venditori di “pollo ossuto”, di riso cotto nelle canne di bambù e giostre rudimentali azionate dalla forza umana.

Molti Lao sono attratti dai giochi d’azzardo: c’è una specie di roulette, ma al posto della pallina e dei numeri, c’è un aereo che gira e che si ferma in uno dei settori colorati che compongono il tabellone, c’è il gioco delle freccette, quello dei barattoli da buttare giù con tre palle e quello dei cerchietti, dove occorre centrare le bottiglie di Pepsi Cola, i vincitori ne ricevono una in premio. E’ superfluo ricordare che il banco vince sempre. Nell’aria c’è una terribile cacofonia di suoni provocata dai complessi che suonano musica Lao dal vivo, c’è anche un gruppo di danzatrici tradizionali che muovono sinuosamente braccia e mani, ricordano le “apsara”, ma il sottofondo musicale è monotono: i suoni assomigliano a quelli di uno xilofono. Sono poi tornato verso Champasak, alla Guest House ho ordinato un frullato alla frutta. I ritmi d’attesa sono lunghissimi, dopo avere conquistato il mio “fruit shake” sono andato a dormire.

L'l'indomani all’alba ero già in piedi, perché oggi, in occasione della Magha Puja (Makkha Bu – Saa) vale a dire il plenilunio di febbraio, che commemora il discorso fatto dal Buddha davanti a 1.250 monaci ai quali il Maestro parlò delle regole monastiche e della propria morte, ci sarà una gran cerimonia religiosa nella quale i fedeli offriranno ai monaci cibo, incenso, fiori e denaro. Questa festa è rinomata anche per gli avvenimenti di contorno: combattimenti fra galli e fra bufali, gare di velocità fra elefanti, regate di barche sul Mekong e incontri di box Thailandese, però non c’era nulla di tutto ciò. WatPhuDiario_10.jpg (8142 byte)

Ho preso un taxi collettivo, facendo il viaggio aggrappato al paraurti posteriore: ero infreddolito per l’aria frizzante. Arrivato al Wat, la via principale d’accesso al tempio era stipata da pellegrini seduti a gambe conserte ed in serena attesa, centinaia di persone ordinate per due lunghe file davanti alla spianata che porta al Wat, tutte nell’attesa del passaggio dei monaci dalle tonache colore zafferano. Ogni persona aveva con se qualche cosa, le offerte erano collocate in enormi vasi argentati, tutti scolpiti, le cui forme ricordavano i calici utilizzati dagli antichi Greci per brindare. I fedeli offrivano un po’ di tutto: palle di riso agglutinato, denaro, fiori, incenso, merende al cioccolato, biscotti e frutta.

L’atmosfera era quieta, tutti erano assorti e concentrati nell’attesa che la processione avesse inizio: era emozionante guardare questa gente, ne ho approfittato per scattare qualche foto, tutti mi sorridevano e non mostravano disagio per gli “scatti selvaggi” che continuavo a fare. I monaci erano seduti sui massi neri di laterite e aspettavano il segnale per iniziare la processione. Quando è partita, i monaci ed i novizi hanno iniziato a camminare lentamente tra due ali di folla, tutti tenevano in grembo il contenitore utilizzato all'alba, durante la questua giornaliera. Erano una sessantina disposti su due file, il popolo ha iniziato ad agitarsi ed ad attingere “a piene mani” dalle offerte che aveva con se, ognuno voleva offrire qualche cosa, affinché nessuno rimanesse senza doni. I monaci cercavano di arginare la foga dei fedeli con gesti e sorrisi, tutti volevano donare con entusiasmo, i più intraprendenti avevano intere scatole di merende o di biscotti. WatPhuDiario_11.jpg (7855 byte)

Per contenere questi “assalti da donazione” e per raccogliere le offerte, c’erano persone fornite di grandi sacchi di juta: quando il contenitore era pieno, i monaci interrompevano il cammino e versavano dentro il contenuto alla rinfusa. Dentro i sacchi c’erano tante cose: palle di riso agglutinato, confezioni di biscotti, banconote e frutta. Solo i fiori e le ghirlande non erano conservati. La cerimonia della questua è durata più di un’ora, nel corteo oltre ai monaci c’era una varia umanità: gli aiutanti che trascinavano a fatica i sacchi, operatori della “Lao TV” e fotografi. Quelli “ufficiali” dei giornali locali e quelli che scattavano foto a pagamento, per ritrarre i fedeli nel momento in cui facevano le offerte, familiari dei fedeli che immortalavano i parenti nell’atto della donazione, stranieri che si mischiavano alla folla dei locali (me compreso) per ritrarre le fasi della “performance monacale”. Monaci e fedeli non sembravano turbati da questo caos primordiale, erano come superiori.

Quando i monaci hanno terminato il loro percorso, la folla si è dissolta in un battibaleno, lasciando sul terreno o meglio, sul “campo di battaglia” sacchetti e scatole di cartone. Era un’immagine simile a quella degli spalti deserti di uno stadio, dopo una partita. Ho deciso di abbandonare Champasak, ero sazio d’emozioni e non volevo rimanere anche oggi, la gente era diminuita, provavo solo rincrescimento per non assistere alla cerimonia della sera: una processione dei monaci con le candele attorno al Wat.  Sono  tornato  alla  Guest  House,   ho  pagato  il  conto  per  le   due  notti trascorse e sono andato a Ban Phaphin per attraversare il Mekong.

 

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