Questo è stato un viaggio nell’Isaan: nel marzo 2003 ho visitato le rovine Khmer di Phimai e di Phnom Rung, poi ho costeggiato il fiume Mekong e sono stato a   Mukdahan, That Phanom, Beung Kan, Nong Khai e a Vientiane, la capitale del Laos.

ThaiNordEstDiario_1.jpgMi sono diretto alla stazione dei treni che si trova davanti all’aeroporto di Bangkok e ho cercato una coincidenza per Saraburi, perché i treni diretti a Korat partono solo la mattina presto e nel tardo pomeriggio. Con ancora addosso jeans e scarpe da ginnastica, sudavo copiosamente: ho rincorso il treno ma l’ho perduto per un soffio. Nell’attesa del successivo, sono tornato in aeroporto per cambiarmi e per godere, un’ultima volta, dell’aria condizionata che dovrò scordare per qualche giorno. Saraburi è una cittadina a metà strada tra Bangkok e Korat, famosa per un centro di disintossicazione dall’eroina e dall’oppio. Dal finestrino del treno, scorre una campagna con risaie e alberi di banano, è una Thailandia diversa da quella patinata e turistica che fa parte del nostro immaginario collettivo. A Saraburi ho raggiunto la stazione dei bus e ho preso una coincidenza per Korat, nell’aria c’era un odore di pollo fritto e di prodotti deperibili, era pungente e un po’ stomachevole, a tratti, ricordava quello della spazzatura.

Sono felice di questo tuffo verso la Thailandia del nord est, verso l’Isaan, contento di incontrare gente che ti osserva con curiosità e ti sorride con semplicità e di visitare una regione senza le comodità della Thailandia più occidentalizzata. Il bus sembra un giocattolo di latta e corre a più non posso sull’asfalto lucido, i finestrini sono spalancati e si gode dell’aria calda che finisce violentemente sul viso. Alle fermate salgono i venditori di generi di conforto, strillano per attirare l’attenzione e offrono bevande e spuntini caldi. Cosce di pollo fritto infilate su grandi stecchi, riso agglutinato, spiedini dai sapori ambigui, würstel e salsicce agrodolci, crêpe dolci ripiene di zucchero e cocco. Ho comprato delle salsicce, ThaiNordEstDiario_2.jpgper renderle meno anonime, le ho insaporite con piccoli peperoncini verdi e rossi: ho osato sfidarli e la bocca si è subito infiammata. Il paesaggio è bucolico, ma sono scomparsi i campi di riso: dopo l’attraversamento del parco nazionale Khao Yai (dove c’è la foresta monsonica meglio conservata di tutta l’Asia) sono apparsi vigneti ordinatissimi, alberi da frutto, vivai e venditori d’ortaggi, queste coltivazioni “high tech” mi hanno stupito.

Phimai

A Korat ho cambiato bus e ho preso una coincidenza per Phimai che dista 60 chilometri, il paesaggio è di nuovo cambiato: secco, brullo e desertico. Ero contento di arrivare a Phimai nel tardo pomeriggio e di vedere il Prasat Hin Phimai sia con la luce carica del tramonto sia con quella morbida della mattina. Ho preso una stanza all’Old Phimai Guest House, poi sono andato al Prasat che è circondato da un gran muro in laterite e che si trova nel centro della cittadina. Il Prasat fu costruito dal Re Khmer Jayavarman VI° verso la fine del decimo secolo e fu terminato da Suriyavarman I°. Phimai era l’antica Vimayapura, la “città di Vimaya” (nel nome moderno, la “V” è diventata “Ph”). In una delle iscrizioni trovate al Preah Khan, si diceva che a Phimai arrivava una delle strade reali, la stessa passava anche per Phnom Rung, la mia prossima meta. In origine il Prasat era un tempio Buddista Mahayana e non un tempio Hindu: è strano perché fino all’avvento di Jayavarman VII° (1181) tutti i templi erano dedicati a Shiva e Vishnu. Nella simbologia Khmer, il fossato, ossia la cinta più esterna rappresenta l’oceano cosmico, i muri perimetrali le montagne, il santuario centrale la vetta del monte Meru.

Balza all’occhio il prasat, ossia la torre, (parola che deriva dall’indiano prasada) in laterite bianca, è alta ventotto metri e la si vedeThaiNordEstDiario_3.jpg da qualunque angolazione la si guardi. La costruzione s’ispira alle torri shikara, in particolare a quelle costruite durante la dinastia Chola che regnò nell’India del Sud dalla metà del IX° fino al XIII° secolo. Ci sono due cinte: l’interna e l’esterna, questa misura 1020 x 580 metri, quasi quanto il perimetro di Angkor che è lungo 1025 x 800 metri, particolare inusuale per un sito “minore” come questo. Su ogni lato c’è un gopura (padiglione d’entrata sovrastato da una torre) che funge anche da ingresso al tempio, ce ne sono quattro per ogni cinta, ma nessuno ha mantenuto la forma originaria perché è crollato.

Davanti all’entrata principale c’è una terrazza cruciforme contornata da naga (serpenti), hanno le teste sollevate verso l’alto e nella simbologia Buddista e Hindu, rappresentano un tramite tra il mondo degli uomini e la dimora degli Dei. Il tempio vero e proprio inizia dentro la cinta interna, è rivolto verso sud est, in direzione di Angkor che dista 225 chilometri. I corridoi e le finestre quadrate del perimetro interno sono in condizioni precarie, talvolta, si intravede un accenno di torre o di tetto: pensi al tetto perché i lunghi corridoi sono identici a quelli di ogni tempio Khmer, altrimenti lo immagineresti solo con la fantasia. Se ci si aggirasse tra queste rovine senza una mappa topografica, sarebbe difficile comprendere a cosa ci si trova davanti. Il monumento è stato restaurato negli anni 1950, ma non tutti i pezzi hanno trovato la giusta collocazione. Alcuni sembrano messi a casaccio, ci sono bassorilievi con scene del Ramayana all’incontrario. Il Prasat non mi ha entusiasmato, mi sono piaciuti i massi in laterite rossa che si infiammavano all’ora del tramonto e sembrava che avvampassero, ed il riuscire a camminare quasi in solitudine, perché il posto, come tutti i parchi archeologici, deve essere visitato così, ma onestamente, tutto ciò non rende il luogo indimenticabile.

E’ poi arrivato un fronte di nuvole, era sostenuto da un vento poderoso ed ha inghiottito il sole prima che potesse tramontare: il cielo da rosso fuoco è diventato prima bianco latte e poi nero come la pece. ThaiNordEstDiario_4.jpg Ha iniziato a diluviare con una violenza apocalittica, i lampi e le saette si facevano sempre più vicini e tentavo di farmi “piccolo piccolo” per scongiurare di prenderne uno in testa. Quando le strade si sono allagate e l’acqua ha intasato le fogne, sembrava di essere a Venezia. Nessuno circolava e negozianti e moto tassisti si godevano l’inaspettata frescura davanti all’entrata delle botteghe. Dopo la pioggia sono andato al mercato notturno, c’era poca gente, ormai i negozi avevano chiuso ed erano aperti un minimaket e i rivenditori di CD e DVD falsi. Ho mangiato pesce cotto in foglie di verdura, Phad Thai (spaghetti fritti) e un pezzo di zucca ripiena di budino, evitando le bancarelle che offrivano scarafaggi e scorpioni fritti, poi sono andato a dormire.

Alla mattina ho noleggiato una bicicletta per andare al Museo Nazionale che contiene sculture provenienti da Phimai, Phnom Rung e Phnom Wan. Il reperto più importante era una statua del re di Angkor, Jayavarman VII°, proveniente dal Ban Prasat di Phimai: il re era seduto a gambe conserte, per la posizione assunta, assomigliava ad un Buddha. Sono poi stato al “Sai Ngam” che è il più grande albero bayano di tutta la Thailandia: occupa un’area di 25.000 mq. ed è vecchio più di 350 anni. Si trova su un’isoletta, circondata da uno stagno, popolato da enormi carpe rosse e nere, la gente compra verdure e granaglie e i pesci si contendono queste leccornie, provocando un gran turbinio d’acqua. L’albero non ha un solo tronco, ma è formato da un’enormità di braccia tentacolari che affiorano dal terreno e lo sorreggono: quando si cammina sotto la pianta, per i tanti rami e radici somiglianti a liane, sembra di essere in una foresta. Nella penombra alcuni astrologi predicano il futuro. Ho conosciuto Sim e Pom, ThaiNordEstDiario_5.jpgdue ragazze che mi hanno invitato a mangiare, o meglio, loro hanno provveduto alla casa ed alle stoviglie, io alle vettovaglie. Seduti all’aperto su un letto di corde, in compagnia delle galline e dei cani che razzolavano tra i piedi, abbiamo banchettato con anatra arrosto e insalata di papaya.

Nel pomeriggio ho preso un bus per Korat, sono sceso 15 chilometri prima, per vedere il Prasat Phnom Wan. Il tempio non è stato ancora restaurato: il recinto principale di forma quadrata, ha tutte le gallerie crollate, rimangono intatte solo alcune finestre, il prasat invece, si è conservato abbastanza bene, ma le sculture e i bassorilievi in pietra arenaria sono stati lavati via dallo scorrere del tempo. Attorno al prasat c’erano grandi blocchi di pietra, allineati per svariate file. Come in un puzzle, gli archeologi cercavano di trovare la soluzione, per farli collimare: adesso c’è poco da vedere, bisognerà tornare tra qualche anno, quando il restauro sarà terminato.

A Korat ho preso un altro bus per Buriram, dopo due ore e ½ di viaggio sono arrivato a Nang Rong, il posto più vicino per raggiungere Phnom Rung: ho trovato una stanza all’Honey Inn, un alberghetto che noleggia anche moto. Nang Rong si sviluppa attorno alla strada principale, oltre al tanto traffico ti colpisce la cacofonia di suoni che giungono dai locali con musica dal vivo. Sono night club, addobbati con luci colorate tipo albero di Natale, sono tanti e spropositatamente numerosi. Sbirciando all’interno s’intravede una cantante che si esibisce sul palco, è vestita con micro abiti, zeppe alte o stivaloni. Sedute ai tavoli, ci sono le ragazze che chiacchierano nell’attesa dei clienti, altre invece stanno sulla porta e fanno da “buttadentro”. Nelle vicinanze c’era un cinema “drive in”: le coppie non entravano in macchina, ma cavalcando una moto, poi, dopo questa passeggiata esplorativa, ho mangiato qualche cosa.

 

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